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Dell'altro che è nel medesimo
Artaud e il Cinema

di Alessandro Cappabianca

 

Ogni autentica effige ha un’ombra
che costituisce il suo 'doppio
' ...

Non si riconosce l’altro, nel caso di Artaud, se non si riesce a specchiarsi in una pena che glielo renda sodale, il che significherà, negli ultimi anni, riconoscere ogni reduce da campagne di persecuzione, cui si è accomunati dall’esperienza del Corpo di dolore. La cosa terribile, cui (fortunatamente, se è lecito dirlo) Artaud era stato sottratto in manicomio, è che quei pochi amici invocati ed evocati nel delirio, la Storia s’era frattanto incaricata di moltiplicarli, di renderli, sempre nella più totale impotenza, desolata falange di vittime perseguitate, deportate, uccise e gasate, comunque offese nella loro dignità (cfr. la "lettera sulle deportazioni" del 16 maggio ’46 a Pierre Bousquet); ma s’era anche moltiplicato, a ritmo esponenziale, il numero dei volenterosi aguzzini, pronti ad arruolarsi sotto le bandiere dei prevaricatori.

La solidarietà con l’Altro, come Corpo di dolore, costituisce tuttavia la controparte del riconoscimento, nel delirio, dell’Altro malvagio in quanto Doppio, prodotto di quella scissione fondamentale che accompagna ogni singolo momento dell’esistenza di Artaud, a partire dalla nascita, anzi, dal concepimento – per il fatto che si ha un corpo, senza mai coincidere del tutto con esso.

Ogni corpo, posto sotto la luce, proietta un’ombra; ma, anche senza luce, proietta un corpo/ombra, un fantasma, un doppio, il cui incombere segreto ci costringe, volenti o nolenti, al riconoscimento dell’Altro, e viceversa; tanto più, forse, quanto meno nel dolore e nella sofferenza, sentiamo il "nostro" corpo come sodale: fino al punto di sentirlo definitivamente invaso dall’Altro in quanto entità maligna. "Il fatto è che non siamo padroni dei nostri corpi." (lettera cit. a P. Bousquet).

E il teatro, forse, ponendo in scena i Miti che vogliono "partorirsi addosso a noi" (cioè prendere il nostro posto, abusivamente, fin dalla nascita) potrebbe indicare una via d’uscita: "Costruire un palcoscenico per danzare i miti che ci martirizzano e farne degli esseri veri prima di imporre a tutti la mandragora seminale della semenza delle idee." (id.).

Nel ’46, ma già da molto prima, Artaud non crede, non spera altro che nel teatro (come danza esorcistica): ma c’era stato un tempo in cui s’era pure illuso di poter ritrovare attraverso il cinema "la disposizione primitiva delle cose", a partire dalla sceneggiatura de La coquille et le clergyman, e dagli scritti che la accompagnano, primo tra tutti Cinema e realtà (1927), poi Stregoneria e cinema (sempre 1927), attraverso le altre sceneggiature non realizzate, fino alla delusione espressa nella Vecchiaia precoce del cinema, del 1933 ("Il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio e fatto a pezzi.") In quest’ultimo scritto, che fa i conti con un cinema (secondo Artaud) non solo pervertito dall’avvento del sonoro, ma ormai incapace di donare agli oggetti, com’era avvenuto qualche volta nel muto, "una vita a parte", si opera tuttavia una distinzione fondamentale, tra set e film: se c’è ancora poesia nel cinema, dice Artaud, è sul set, durante le riprese, non più nel film.

Artaud dunque pensava (anche se poi s’era ricreduto) che un calco di luce (come più tardi Bazin avrebbe definito l’immagine cinematografica), una traccia, un’impronta, potesse costituire non un simulacro, non un sostituto più o meno adeguato della presenza, ma la quintessenza dell’essere, frutto d’una ricerca di tipo alchimistico, per quanto difficile e costellata di fallimenti, che vediamo accumularsi tra le fiale spezzate e gli alambicchi infranti accumulati ai piedi del clergyman. Ma cosa gli faceva ritenere che l’immagine cinematografica dell’Altro potesse rivelare la sua essenza, proprio in ragione del suo non-esserci?

Su questo piano, allora, la quintessenza dell’Altro non è meglio rivelata dalla pittura (o dalla scultura)?

Artaud sa bene che nella pittura si può cogliere la natura profonda dell’essere, dell’oggetto o della scena ritratta, ma essa rimane una sua rappresentazione: non abbiamo mai l’impressione d’essere di fronte a una traccia lasciata dalla cosa stessa. La pittura "si costruisce" – la traccia fotografica o cinematografica viene lasciata (come la scia di una lumaca), per quanto si lavori a costruire l’inquadratura secondo angolazioni, luci, regole formali ecc.

Essa, sullo schermo, non appare perciò tanto come un fantasma, quanto come un doppio consustanziale all’essere. E’ il suo ka, il suo doppio incorporeo, la mummia dell’essere.

Ogni apparizione dell’attore sullo schermo è un anticipo della sua morte (in questo senso forse bisogna intendere gli "eterni ri-morti" di Bazin), e insieme ne è lo scongiuro. Se si vuole, il sonoro è una protesi, il colore è il perfezionamento del make-up: imbalsamazione d’una mummia semovente, fatta di luce e ombra.

Se consideriamo (con il primo Artaud) l’immagine cinematografica come doppio fantasmatico dell’essere e dunque come traccia dell’Altro nel cuore stesso del medesimo, occorre prendere atto che il fenomeno è particolarmente evidente nel bianco e nero, anzi, si potrebbe considerare addirittura legato ai netti contrasti di luce e ombra indotti dai primi tipi di pellicola ortocromatica.

Korkalen (Il carretto fantasma, V. Sjostrom, 1920) si può porre, in effetti, come rappresentante di quei film misteriosi, immersi in un’atmosfera di trance, di cui Artaud auspicava la proliferazione in Stregoneria e cinema. La luce nordica e il magistrale luminismo di Sjostrom, fanno sì che gli attori (Sjostrom compreso), appaiano come fantasmi irradianti stagliati su sfondi scuri. Il carretto fantasma, com’è noto, condotto ogni anno da un diverso cocchiere-fantasma (scelto tra chi è stato ucciso alla mezzanotte dell’ultimo giorno dell’anno), gira a raccogliere non i morti, ma le loro anime, anch’esse "morte", estratte dai cadaveri come specie di doppi. Pertanto, non c’è grande differenza, sullo schermo, tra la traccia dell’attore "in carne e ossa" e il fantasma che lascia il suo corpo: tutti e due appaiono, in diversa misura, come fantasmi (il fantasma vero e proprio, il doppio, differisce dall’altro al massimo per la sua trasparenza, dovuta al trucco tecnico della sovrimpressione). L’analogia con l’immagine egiziana di Ka, più volte ricordata da Artaud (e da René Daumal) è evidente: se è vero che Ka, considerato come doppio fantasmatico o come forza garante del principio d’esistenza, si ricongiunge al defunto nell’aldilà (secondo la religiosità egizia), esso, rimanendo in un certo senso catturato nel film, configura una situazione analoga alla "cattura dell’anima" temuta da alcuni popoli "primitivi" quando vengono fotografati.

Se ogni corpo è sempre doppio, ossia ha in sé l’Altro, il cinema, come meccanismo di rivelazione e cattura del doppio dei corpi filmati, li imprigiona allora in un’eternità (o in un prolungato, indefinito differimento) di durata, che si rivela in pieno a partire dall’effettiva scomparsa del corpo fisico (la morte dell’attore o dell’attrice, ma anche il loro invecchiamento, il più o meno clamoroso degrado del loro aspetto), e tuttavia, come avevano intuito Artaud e Dreyer, è in grado (in certi casi speciali) di manifestarsi addirittura sul set, al momento delle riprese, prima ancora che il film esista in quanto tale.

Ha scritto Deleuze: "Mentre l’espressionismo fa subire alla veglia un trattamento notturno, Artaud fa subire al sogno un trattamento diurno. Al sonnambulo espressionista si oppone il vegliambulo di Artaud, nei Dix-huit secondes o ne La coquille et le clergyman." (1) Ma se non esistono purtroppo altro che tracce scritte (sceneggiature) o spurie (il film realizzato dalla Dulac) del vegliambulo artaudiano, non mancano alcuni altri esempi, a partire da Dreyer.

In effetti, si parla sempre dell’ "espressione sonnambolica" di David Gray nel Vampyr di Dreyer (1931), e si usa attribuirla anche alla ridotta espressività dell’interprete, l’attore non professionista Julian West, alias barone Nicolas de Gunzburg (mecenate e finanziatore del film). David appare per la prima volta mentre si aggira nel villaggio con aria smarrita, munito d’una rete per farfalle, arnese tradizionalmente utilizzato per sottolineare la svagatezza d’un personaggio – ma David Gray, se pure si comporta da sonnambulo, rimane in stato di veglia (a parte la breve parentesi dell’incubo mortuario), ben diversamente dal Cesare del Dottor Caligari. Le ombre che vede animarsi, rese indipendenti dai corpi, somigliano sì ad apparizioni oniriche, ma sono, più propriamente, manifestazioni d’una sostanza invisibile che cerca di venire alla luce, figure d’una disposizione primigenia e segreta delle cose, svelata dal cinema.

Più che il riferimento al concetto filosofico di Automa spirituale, ci pare emerga qui, come altrove in Dreyer, un Automa perplesso, preda d’una specie di "stupefazione" dello spirito, "sconvolto per osmosi" (direbbe Artaud) dall’improvvisa rivelazione d’un mondo primigenio, corporeo e al tempo stesso inorganico, balenante ai confini del visibile. Ricordiamo anche il tema della "donna stupefatta", elaborato a suo tempo da Michele Mancini in relazione al cinema di Max Ophuls. Ophuls chiedeva p. e. a Danielle Darrieux, in Madame de…, di "incarnare il vuoto", di mimare "l’inesistenza": trovandosi di fronte all’inesplicabile, a un vuoto di significato del reale, all’improvvisa defaillance del senso, lo spirito si rifugia nel mancamento, il volto, gli occhi, denunciano l’apertura repentina d’una sorta di voragine nell’esistenza, la donna perde i sensi, sviene (così come, per l’insostenibile tensione, sveniva Gertrud, invitata a cantare in una cerimonia ufficiale, accompagnata al piano dal suo amante segreto, nell’ultimo film di Dreyer).

Si tratta di eroi, o eroine, che perdono, definitivamente o temporaneamente, la padronanza di se stessi: vengono meno, o vanno in giro con occhi spiritati, gesti legnosi, movimenti da zombie, toccati dall’inesplicabile. Sono David Gray come il David Holm di Sjostrom, il castellano della casa Usher di Epstein come il clergyman di Artaud – sono la Jeanne d’Arc di Dreyer, Gertrud, le eroine di Ophuls, perfino l’enigmatico N, interpretato da Doniol-Valcroze, un non-attore, in L’immortelle di Robbe-Grillet. Un attore può giocare l’indecisione, la perplessità, lo stupore, l’imbarazzo (per non parlare della pazzia), ma li giocherà sempre con un pizzico di padronanza di troppo (la padronanza cui crede di aver diritto, ahilui, per il solo fatto d’essere un attore). Vero automa perplesso può essere solo colui che non ha padronanza (un eccesso di fissità, quasi di stupidità, di meraviglia stupefatta)…

Non ci si trova mai coinvolti in un film senza pericolo, se il film è degno di questo nome, perché il cinema dà vita alla Mummia dell’essere, libera e rende visibile Ka, il fantasma del Doppio – e in questo senso, ogni film è opera di stregoneria, esperimento di evocazione. Dell’Altro che è nel Medesimo.

 

Note

(1) G. Deleuze, L'immagine-tempo, trad. it. di L.Rampello, Milano, Ubulibri, 1997, p. 187).