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Osservazioni sulla posizione della filosofia
dentro e fuori del mondo

di Jan Patocka

(cfr. il testo originale francese
e Patocka, "filosofo resistente" di Domenico Jervolino)

Queste poche parole non hanno la pretesa di essere filosofia nel senso proprio del termine. Non entreremo qui nel cuore dei problemi propriamente filosofici. Non è nostra ambizione dare un contributo al dialogo filosofico che si svolge tra le varie epoche, di millennio in millennio: dialogo di coloro la cui esistenza nel tempo è un’abolizione del tempo – più ancora che quella del poeta o dell’eroe, misurata all’eternità. Ogni grandezza dipende, in definitiva, da un varco che la dimensione extra-temporale si apre in seno al tempo, ma la grandezza filosofica implica, inoltre, la comprensione esplicita dell’unità del tempo e del sovratemporale. Ora questa grandezza non è forse estranea all’epoca attuale, insensibile persino alla grandezza del poeta e dell’eroe? L’idea che ci facciamo del filosofo non è forse quella di un uomo al quale la vita intera appare necessariamente come materia da pensare, di un uomo quindi che non è semplicemente filosofo in un momento o in un altro, all’occasione, tra gli altri piccoli vizi e virtù, ma di un uomo che è filosofo per davvero? Proprio mentre la filosofia dei nostri giorni sembra essere diventata una cosa contingente che il percorso della vita può incrociare o lasciare completamente da parte. Come può una filosofia del genere, alla deriva e senza passione, resistere agli assalti del "mondo"? Non sarà forse necessario che essa torni in sé, che cerchi un sostegno innanzitutto in ciò che essa è nella sua idea, in ciò che essa può dunque essere per il filosofo concreto? Esiste in questo senso un’esperienza filosofica, processo disagevole che nessun individuo può rivendicare per sé, ma che è l’opera di una filiazione di grandi. È questa esperienza, in alcuni suoi tratti che consideriamo essenziali, a costituire l’oggetto dell’improvvisazione che segue. Lo ripetiamo: il nostro proposito non è qui quello di fare filosofia. Ci limiteremo ad un modesto tentativo di strappare la filosofia all’oblio – ad un’anamnesi, quindi, che non smetta di rendersi conto dei rischi ai quali si espone. In effetti, tanto varrebbe parlare della terza dimensione in un mondo senza profondità. Il quadro ristretto di cui disponiamo non ci permette di giustificare le nostre tesi come lo avremmo desiderato, nonostante esse abbiano senza dubbio una legittimità più profonda rispetto all’insulsaggine afilosofica della produzione che osa presentarsi al giorno d’oggi sotto il titolo di filosofia.

Incominciamo dunque dalla tesi, dall’idea generale di cui la filosofia è la realizzazione concreta: 1) Tra le possibilità dell’uomo figura la capacità di conoscere il mondo (non le singole cose, ma la "totalità"). 2) Il soggetto non può cogliere questa possibilità se non abbandonando in una certa maniera il suolo del mondo, trascendendolo. 3) A differenza della conoscenza delle singole cose, questa conoscenza della totalità non è contingente; nonostante non sia mai definitiva, essa è di un altro ordine rispetto alla comprensione intramondana delle singole cose. 4) Solo la conoscenza del mondo (in quanto "totalità") conferisce al sapere quell’unità richiesta dalla conoscenza del contenuto mondano, vale a dire delle singole cose.

Approfondire queste idee sarebbe filosofare, ma questa non è qui la nostra intenzione. Poniamo piuttosto una questione. Se il filosofo è separato dal mondo da un abisso così profondo, separato dunque dall’umano nella sua totalità (visto che l’uomo stesso fa parte del "contenuto mondano"), la sua attività non ci è allora perfettamente indifferente? Applicato al nostro mondo che è questo qui, il suo campione di misura non si riduce forse a nulla e, inversamente, le sue preoccupazioni non appaiono forse – misurate al metro di quaggiù – come un semplice gioco cerebrale che schiva la serietà della vita? In breve, la filosofia non è magari uno di quei divertimenti di cui l’uomo può permettersi il lusso nei momenti di serenità, nei rari rifugi ed oasi di pace intorno ai quali si scatena l’uragano del mondo? Il primo lavoratore arrivato, un uomo qualsiasi che è stato provato dalla vita e che tuttavia assume su di sé la propria esistenza con un minimo di forza e di fierezza, non ha forse il diritto di guardare a questo diseredato come a qualcuno che ignora tutto della vita ed essenzialmente non può saperne nulla, non ha forse il diritto di considerarlo di conseguenza – ammesso che egli pretenda nondimeno di spiegare l’esistenza a suo modo – come un falsario del senso della vita? Non si dovrà dar ragione a coloro che, dietro la facciata sovrumana della professione di fede filosofica, vedono un’evasione troppo umana, una fuga impaurita davanti alla vera realtà, indipendentemente dal fatto che le motivazioni siano individuali o sociali? E fuggendo così la realtà, il filosofo non è forse condannato a sbagliarsi egli stesso, ad ingannare anche gli altri? Non è forse un povero buffone, un pagliaccio suo malgrado, mai più dipendente se non quando si crede libero, mai più profondamente determinato dal dramma della collettività umana se non quando si crede solo, al di sopra della mischia? – Tutto questo significa che il mondo non è indifferente e senza difesa nei confronti del filosofo. Se il filosofo si distacca rispetto al mondo, il mondo risponde rivolgendo il suo odio contro il filosofo. Dal punto di vista del "mondo", la filosofia è perversione e frode, una depravazione essenzialmente fallace. La si può tollerare, sfruttare, metterla nella condizione di non nuocere, riducendola ad una funzione puramente ausiliare. Ma se rifiuta di servire, allora bisogna combatterla come un processo patologico incomprensibile che mina la vita della collettività; occorre estirparla di fatto dall’insieme delle funzioni vitali e, così, devitalizzarla. È evidente che intrinsecamente queste obiezioni non hanno alcuna presa sulla filosofia, che esse non ne colpiscono che le prospettive e il modo di espressione – ossia la proiezione mondana della filosofia stessa. Tutte queste critiche sono vane per la semplice ragione che, pur passando in rivista tutto l’universo, restano incapaci di mettere le mani sulla filosofia – il loro bersaglio si rivela introvabile. Per noi altri uomini del mondo, la filosofia è un fantasma che gioca i suoi brutti scherzi alle nostre spalle, ma che non potremo mai costringere ad apparirci faccia a faccia. Il tema dell’isolamento della filosofia, l’idea della separazione evocata dapprima in Eraclito e ripresa, in termini eloquenti, da Meister Eckhart conduce così, intensificandosi ed approfondendosi, dall’indifferenza verso la filosofia ad un’ostilità attiva che la considera come un pericolo.

Concretizziamo questa idea, vediamo quali sono, in casi differenti, i rapporti reciproci tra il mondo e la filosofia. Il mondo non può vedere nulla della filosofia se non la sua proiezione mondana; la filosofia, da parte sua, vede il mondo quale esso è effettivamente – perché questo è il suo tema. Il filosofo è esteriormente senza difesa contro il mondo, il mondo interiormente senza difesa contro la filosofia. Ne consegue che non può esserci, tra il filosofo e il mondo, alcuna discussione sulla filosofia. Le tesi attraverso le quali il mondo interpreta la filosofia – i diversi materialismi, positivismi, economicismi, psicologismi, psichiatrismi, sociologismi, teologismi, ecc. – si fondano tutti sul presupposto errato secondo il quale sarebbe possibile incominciare una discussione con la filosofia sul terreno di questo mondo. Il filosofo non può accettare questa posizione – adattarvisi, sarebbe ammettere la possibilità che la filosofia dipenda da un qualsiasi fatto intramondano e, pertanto, condannarla in quanto comprensione della totalità.

C’è ancora un altro aspetto strettamente collegato a tutto ciò – l’impossibilità, per il filosofo, di dimostrare la sua verità agli altri. Coloro che intendono la filosofia in una maniera che esclude a priori ogni comprensione, non vedono nei suoi argomenti che delle pezze d’appoggio per le loro tesi. Non si possono fornire prove se non laddove si riconoscano gli stessi principi, e non è questo il caso: gli argomenti addotti contro la filosofia si collocano al livello dei fatti intramondani e non sul piano in cui il filosofo stesso si situa. Da ciò proviene anche l’imbarazzo del filosofo costretto a dire che cosa sia la filosofia: "Di quello che è il loro oggetto [delle ricerche filosofiche] non si deve parlare, come si fa per le altre scienze". (1) Come dimostrare qualcosa che non ha analogo nel mondo e che, nella sua proiezione mondana, è intaccato dalla relatività comune a tutte le cose umane? Anche il silenzio diventa una modalità della risposta filosofica.

Se è impossibile al filosofo provare la sua verità, si può dire, ampliando ancora il discorso, che il suo linguaggio non potrà mai essere compreso. Utilizzando, per ragioni essenziali, la stessa lingua alla quale si affida il resto degli uomini, egli conferisce alle parole un senso che esse non avevano fino ad allora. In nulla il filosofo vede lo stesso di quanto vedono coloro che restano in un atteggiamento ingenuo, non riflettuto. I termini "mondo", "cosa", "uomo" designano, agli occhi del filosofo, tutt’altra cosa rispetto a quanto intendiamo noi altri non filosofi, che siamo giunti a questi significati Dio solo sa come. In filosofia, tutto sembra dunque capovolto al contrario (secondo il motto di Hegel: "la filosofia è il mondo capovolto") – il "reale" diventa "irreale" e viceversa, le cose sono determinate dall’idea piuttosto che le idee dalle cose. Confrontando il suo pensiero ingenuo (termine che non ha qui un valore peggiorativo) con la filosofia hegeliana dello Stato, Karl Marx constata: "La differenza risiede non nel contenuto, ma nel modo di considerare ossia nel modo di dire".(2) Qui si vede tutta l’ambiguità del rapporto tra la filosofia e il mondo. Il filosofo può sottoscrivere tutte queste parole, dando loro tuttavia un senso che celerà in sé una proposizione ben diversa da quella che Marx ha creduto di enunciare. Pretendendo di pronunciare una condanna radicale della filosofia in quanto verbalismo, queste parole dicono implicitamente la disfatta del mondo. Così il filosofo è in primo luogo un umorista, perfino quando lascia parlare il mondo al posto suo e contro di lui.

La "storia della filosofia" è una disciplina che si impegna a ripercorrere non tanto la vita della filosofia stessa, quanto, piuttosto, questo conflitto incessante della filosofia con il mondo. La scoperta del mondo è opera della filosofia che ne ha tirato, per di più, certe conseguenze per la vita umana. Eppure la maggior parte di ciò che i manuali presentano sotto l’etichetta di "filosofia" non è nient’altro che la risposta del mondo all’appello alla chiarezza radicale e al coraggio del pensiero lanciato dalla filosofia. Il primo uomo che ha posto espressamente la questione di che cosa sia la filosofia si trova fin dall’inizio confrontato ai fenomeni del bello spirito e della tesaurizzazione del sapere, che tendono a dissimularne l’essenza, e infatti li stigmatizza in quanto tali. (3) È lo stesso che argomenta del principio filosofico sostenendo che gli uomini restano per sempre incapaci di comprenderlo, che ciò avvenga prima di averne sentito parlare o dopo averne avuto conoscenza.

Evidentemente Eraclito non ha dovuto far fronte alla crociata organizzata contro la filosofia di cui noi siamo oggi i testimoni e i cui ausiliari sono la scienza e la religione. La scienza sostituisce l’idea della conoscenza della "totalità" con quella della conoscenza di tutto (di tutte le cose e relazioni esistenti), l’idea della conoscenza del mondo con quella della conoscenza del contenuto mondano, l’idea della conoscenza dell’essenza delle cose con quella di un sistema formale di pensiero sulle cose, l’idea della conoscenza in generale con quella di una ricerca che ignora l’opposizione tra l’architettonica e il dettaglio, tra la concezione e la tecnica. Quanto alla religione, essa cancella la trascendenza a beneficio del trascendente, giacché pone la differenza originaria, irriducibile ed incomprensibile di due piani ontici al posto del movimento che abbandona il piano dell’ente per dirigersi verso un altrove.

La scienza è nata dalla filosofia, alla quale la religione deve, quanto meno, la propria organizzazione concettuale. Siccome tuttavia l’ideale della filosofia non si accontenta di ciò che soddisfa l’ideale della scienza, la filosofia non può essere una semplice "fondazione delle scienze" (così come se lo immaginano i neokantiani), una riflessione sulle scienze nella loro fattualità. Non potendo svilirsi dal rango di padrona a quello di serva, essa non può inoltre neanche mettersi al servizio di un trascendente. Separate dalla filosofia, sia la scienza che la religione le si rivoltano contro, divenendo gli strumenti dello stupro dell’uomo da parte di un surrogato mimetico dell’aspirazione alla verità. La scienza, che si colloca sul terreno di questo mondo – in un processo che avanza dal singolare al singolare, senza mai giungere ad una chiusura definitiva di queste serie –, suggerisce un’idea falsa della conoscenza come totalmente subordinata ad altre necessità della vita. La religione, da parte sua, è l’organo di un’oppressione trascendente. L’una e l’altra sbarrano la strada che conduce l’uomo fuori dal mondo, verso la conoscenza filosofica di sé. Spesso la filosofia e la sua mimesis coesistono in una stessa persona, provocando una lacerazione che può andare fino allo sdoppiamento più tipico. Laddove il filosofo crede di trionfare, è in questi casi il suo doppio a trarne tutto il profitto. Il genio maligno che ispira a Cartesio la sua più grande scoperta è anche lui responsabile dell’ossessione per la certezza che gli impedisce di raccogliere i frutti del suo pensiero, tracciando al contrario l’itinerario seguito dalle scienze moderne. Una storia della filosofia che volesse essere altro che non una classificazione di dottrine, dovrebbe appoggiarsi ad una demonologia, ad una concezione delle potenze interne che governano il conflitto tra il filosofo e il mondo.

Che strano spettacolo, questo conflitto! Come può esserci un conflitto senza contatto? Il contatto non è possibile che su un terreno comune – il che sembra qui precisamente mancare. Il mondo può cancellare l’esistenza del filosofo, ma – paradosso! – è così che la filosofia entra nella storia. Nulla illustra meglio a che punto tali mezzi siano poco adeguati a misurarsi alla potenza interna della filosofia. La ragione per la quale la filosofia non può non essere perseguitata a partire dall’istante in cui si cristallizza nella sua forma pura è quella che Nietzsche ha colto così bene nelle sue invettive contro Socrate: il fatto che la proiezione mondana della filosofia appare, nell’ottica della vita, come una decadenza. La filosofia è una forma di rallentamento della vita, una forma nella quale la vita cessa di essere ingenuamente e spontaneamente creatrice. Il motto di Nietzsche secondo cui "il comprendere è una fine" (4) ha un senso profondo e spiega perché riguarda non solo la scienza moderna, ma per di più anche Socrate come il sintomo di una malattia. La scienza attuale, nella sua forma fattuale, è mossa dal principio dell’utilità per la vita; l’autocomprensione dello scienziato dei nostri giorni è, per così dire, identica a quella del tecnico, oppure non se ne discosta che per la sfumatura di un più o di un meno. Per la filosofia antica, al contrario, la comprensione è l’unico scopo. Prima della filosofia, l’uomo vuole sapere e si immagina di sapere, ma non ci tiene a comprendere. "Sapiente / è chi nasce sapendo / ma i dotti rapaci / simili a corvi dalle mille lingue / stridono confusamente contro la sacra aquila di Zeus", scrive Pindaro. (5) Nel suo primo slancio ingenuo, la vita non cerca di conoscere; comanda – anche in questo punto Nietzsche ha visto giusto. La vita non riflettuta crea il mito e la poesia, visioni potenti nelle quali la sua autocomprensione immediata si deposita sotto forma di modelli da contemplare, nella forma di un’azione esaltante, di un’estasi comunicativa ed inebriante. Essa crea inoltre uomini che vivono e muoiono per mostrare a se stessi e agli altri la loro forza e la loro grandezza più proprie. Mettetevi al posto del poeta e dell’eroe e forse l’intellettualismo filosofico vi apparirà, per lo spazio di un istante, come pretenzioso e plebeo. "Socrate era plebaglia". (6) L’importanza di Nietzsche ha a che vedere anche con questo modo di dare la parola al poeta e all’eroe contro la filosofia. Il poeta è l’ispiratore dell’eroe, l’eroe il realizzatore del poeta; il loro mondo è fatto di coraggio e di pericolo, mentre la filosofia sarebbe – in apparenza – una ricerca di certezze rassicuranti. Il filosofo è come un ostacolo che la vita avrebbe messo sul cammino dell’eroe, per frenare il suo slancio verso la libertà sovrana che egli rivendica. Eppure coloro che condannano Socrate non sono né poeti né eroi, ma semplici ombre parodistiche di eroi e poeti di altri tempi. Non è la vita immediata, in tutta la pienezza della sua forza, ma la sua discendenza indebolita che non ha più alcuna forza creatrice propria e teme per l’eredità, che vede minacciata, che teme di perdere l’appoggio fornito dallo spirito degli avi. L’avversione che i grandi rappresentanti della vita non riflettuta nutrono contro la filosofia si intensifica in questi epigoni, diventa una convulsione dello spirito di vendetta. Nei due casi l’opposizione è guidata da una nostalgia per la vita infinita, visto che l’infinitezza è concepita come inesauribilità e, nei veri eroi, possibilità di accrescimento continuo. Come se questa inesauribilità fosse un’evidenza che va da sé! Come se bastasse sopprimere gli ostacoli perché la vita si infiammi di una forza superiore! L’opposizione alla filosofia non è forse nutrita, in ultima analisi, dalla comprensione del fatto che la filosofia mette il dito sul momento essenziale che è la finitezza della vita? La vita non arretra forse davanti alla perspicacia della filosofia che vi scopre "questa noia in sé assoluta [che] non è altro che la vita ignuda nell’atto in cui chiaramente si contempla", "che non ha altra sostanza oltre la vita stessa e altra causa propizia oltre la chiaroveggenza del mortale"? (7) Come il cristianesimo pretende di salvare la vita grazie ad un aldilà, Buddha nella fusione con l’universo e il socialismo con la visione di un futuro radioso, Nietzsche predica la salvezza da parte del superuomo. La filosofia significherà forse, in fin dei conti, che non c’è alcuna salvezza per la vita? Nel cogliere questo pericolo, non si può forse scoprire una certa comprensione per la filosofia, sia pura repressa? La lotta condotta contro l’"intellettualismo" della filosofia è un malinteso che, senza essere deliberato, nondimeno ubbidisce ad una finalità. Comprendere la propria sovranità interiore è pericoloso per la vita; l’orientamento spontaneo della vita la fa uscire da se stessa, la porta a soffermarsi presso le cose, gli scopi, i modelli. Che la vita stessa sia creatrice e criterio ultimo, questa è una verità alla ricerca della quale la vita non si mette, è una verità che la vita si nasconde.

La vita segue il suo corso ingenuo per tutto il tempo in cui proietta la sua sovranità interiore di fronte a sé in quanto realtà mondana. In altri termini: la vita ingenua ha sempre degli dei ai quali rimettersi e che si ritengono capaci di salvarla dalla sua finitezza di fatto. Gli dei possono essere dei modelli di una aretè perfetta, ispirati all’uomo in una visione poetica; possono essere le Idee ipostatizzate dei filosofi, degli ideali ipostatizzati, la potenza della natura concepita in diverse maniere – come nell’"umanesimo reale" di Marx, che sogna il futuro di un uomo che non sarà più sottomesso alle cose, ma ne disporrà a suo piacimento oppure, in tutt’altro modo, nella concezione nietzscheana di una natura brutale, ma grande, che, riscattandosi nel superuomo, diventa gioia e creazione pura. Tutto questo a condizione che gli dei impongano una regola di condotta, che assegnino un ordine ed uno scopo e, con ciò, assicurino la salvezza. Ma il loro comandamento non è a sua volta possibile se non alla condizione che essi siano reali, investiti di una forza che determina il divenire. "Ingenuità, come se la morale restasse, quando viene a mancare il Dio sanzionante"! (8) Non è solo paradossale, ma francamente cinico credere al comandamento divino senza credere in Dio. Finché si attende la salvezza dalla divinità, questa deve essere ciò che determina in ultima analisi ogni divenire e deve ammettere un comportamento al suo stesso riguardo, un rapporto mosso dal pathos o dall’amore o dall’interesse o infine dalla volontà di potenza. La religione è fondata sulla reciprocità: osserva i comandamenti divini e Dio ti ricompenserà nel corso della tua vita. – Che cosa significhi invece la filosofia, nessun’altro lo ha espresso meglio, in tutta la sua durezza, se non Spinoza: "Chi ama Dio, non può sforzarsi affinché Dio lo ami a sua volta". (9) Il pathos della filosofia non è quello della reciprocità, ma un pathos unilaterale che va, senza ritorno, dall’uomo verso il sovrumano. Salvo errore da parte nostra, è d’altronde implicito nella logica dell’idea della filosofia il fatto che l’attività stessa del filosofo non sia compresa come ricompensa divina. Il filosofo non può dire agli uomini: filosofate e sarete salvati. Che si fondi la salvezza sul merito o sul principio della grazia, la filosofia non salva. Essa è semplicemente la vocazione individuale e, pertanto, la necessità interiore di certi uomini. La filosofia procura piacere a coloro che vi si abbandonano (piacere raro, è vero, e che si accompagna ad una lotta ardua e dolorosa, condotta contro di sé per il sé più proprio), perché vive in essa la passione di conoscere, non meno imperiosa di altre grandi passioni dell’uomo. La profonda visione aristotelica dell’identità tra edonè, theoria ed energeia theou ci sembra quindi prestarsi all’interpretazione che segue: la vita è l’opera della visione eterna della divinità e, finché viviamo, c’è sempre in noi un po’ di felicità. Ma non si tratta di qualcosa che è riservato alla sola filosofia, perché si può dire altrettanto della vita intera.

La filosofia è l’istanza della chiarezza ultima. All’origine, essa è un coraggio per l’essenza ultima dell’ente che la vita ingenua cerca di schivare. La finitezza della nostra vita attuale fa sì che noi proviamo il bisogno di un appoggio esteriore, di una salvezza che impianti la nostra vita su una potenza assoluta. La filosofia, quanto ad essa, capovolge questa situazione: in fin dei conti, ci è impossibile "appoggiarci" ingenuamente su una potenza assoluta per la buona ragione che l’assoluto come tale è integralmente contenuto nel finito; il mondo stesso non è nient’altro che l’assoluto, come esso si scopre nella sua ingenuità. Non ci si può rimettere agli dei, perché l’assoluto non è al di fuori, ma all’interno di noi. L’uomo intrattiene con Dio un rapporto troppo stretto per poter essere confortevole, un rapporto più intimo di quanto non vorrebbe la sua stessa sicurezza. Dio in noi sancisce la nostra finitezza. Il Dio assolutamente creatore non è lo stesso che comanda e che salva. È un Dio al quale non possiamo domandare ciò che è nostra incombenza fare. Il filosofo è tenuto a sostenere questa idea, di "soffrire il privilegio della sua gloria nascosta". (10) L’intimissimum del Dio dei filosofi, sprovvisto di ogni progetto, è la creazione immemoriale – senza volontà, senza pathos, senza slancio, nel ritrarsi dissimulato al suo stesso sguardo.

Se, oltre a Dio, ci sono ancora degli altri dei – dice il filosofo – questi non sono né creatori in ultima istanza, né, in senso proprio, infiniti; sono semplici creazioni. Ma perché ridiscendere dall’altezza una volta raggiunta e desiderare ciò che si è già superato? Dal momento che Dio si incarna nell’uomo, quest’ultimo non ha bisogno di creare dei. Non avendo più il compito di realizzare il comandamento esteriore di un dio, non resta all’uomo che prendersi carico della propria libertà. Ora, chi è libero? Quale sarà la risposta del filosofo a una tale questione, che si impone tanto più imperiosamente da quando l’uomo è stato privato di ogni appoggio trascendente? Non sarà costretto allora ad arrossire del vuoto interiore del proprio principio? Non si sarà convinto senza alcuno scampo del pallido intellettualismo di cui lo accusa il mondo?

La filosofia non prescrive nulla, non comanda niente. Gli basta rimandare a ciò che ha luogo nella vita pre-filosofica ed elucidarne il significato. Gli basta rimandare a una cosa che, senza violenza, senza convulsioni né commedie, riempie la vita, senza per forza coinvolgere una qualche istanza che si troverebbe al di fuori dell’uomo. È la possibilità che ha ciascuno, in virtù della propria decisione, di farsi carico del proprio destino oppure di schivarlo. La risoluzione autentica per il destino più proprio non tiene conto delle circostanze, della fattibilità o meno delle varie prospettive, visto che l’uomo cresce tanto più, quanto più si scontra con degli ostacoli. Resta senza importanza che cosa egli sia esteriormente, il posto contingente che occupa nella società. Più una vita è esteriormente frivola ed irresponsabile, meno ci saranno in essa le possibilità di una sostanzialità autentica. Lontani dalle costrizioni e dalle volgarità della vita, gli uomini si dissimulano la loro stessa colpevolezza e vivono sul solo piano delle apparenze. Il fenomeno al quale la filosofia può rinviare è la possibilità che ha l’uomo non solo di apparire, ma anche di essere.

In fin dei conti la filosofia si rivela così un appello all’uomo eroico. Ecco la parola chiave umana della filosofia. L’eroismo non è una passione cieca, amore o vendetta, ambizione o volontà di potenza. Lungi da questo, l’eroismo implica una chiarezza serena sulla totalità della vita e, in colui che ne è capace, la coscienza che questa maniera di agire è per lui una necessità, la sola modalità possibile della sua esistenza al mondo. L’esser-ci dell’eroe, il suo essere al mondo, nell’istante, non attende alcuna conferma, alcuna continuazione in un aldilà. L’eroismo assume la propria finitezza. Non è nient’altro che una attestazione irrefragabile della sostanza propria, irriducibile alle contingenze del mondo. La filosofia è allora in grado di purificare l’autocomprensione dell’uomo eroico, di fargli comprendere la sua fede non come una rivelazione del trascendente, ma in quanto atto umanamente libero. Ciò che si manifesta in questa fede non è il comandamento trascendente della divinità, ma il principio dell’uomo, collocato in una situazione storica. La comprensione dell’essere che la filosofia realizza trascendendo intellettualmente il mondo, si rapporta all’esistenza umana autentica rappresentata dall’atto libero. Forse possiamo quindi, per concludere, formulare l’ideale di una filosofia sovrana sotto la doppia specie di una filosofia dell’eroismo e di un eroismo della filosofia.

(Traduzione dal francese di Gabriella Baptist)

Note:

1) PLATONE, Lettera VII, 341 c; trad. it. a cura di F. Adorno, in Dialoghi politici. Lettere, vol. II: Leggi, Epinomide, Minosse, Clitofonte, Menesseno, Lettere, Torino, UTET, 1988, p. 695.

2) K. MARX, Zur Kritik der Hegelschen Rechtsphilosophie, in K. MARX e F. ENGELS, Werke, vol. I, Berlin, Dietz Verlag, 1956, p. 206; trad. it. a cura di S. Moravia, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Scritti filosofici giovanili, Milano, Fabbri, 1998, p. 3.

3) Cfr. ERACLITO, Frammento 40, cfr. A. Lami (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, con un saggio di W. Kranz, testo greco a fronte, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 212-213.

4) F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente. Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, 14 [224], in Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/3, Berlin/New York, de Gruyter, 1972, p. 190; trad. it. di S. Giammetta, Frammenti postumi. 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/3, Milano, Adelphi, 1974, p. 187.

5) PINDARO, Seconda Olimpica, 94-97; trad. it. di E. Mandruzzato, in L’opera superstite. I: Le Olimpiche, introduzione, traduzione e note di E. Mandruzzato, Milano, SE, 1989, pp. 76-79.

6) F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt, in Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/3, Berlin/New York, de Gruyter, 1969, p. 62; trad. it. di F. Masini, Crepuscolo degli idoli ovvero come si filosofa col martello, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/3, Milano, Adelphi, 1970, p. 63.

7) P. VALÉRY, L’âme et la danse, in Œuvres, vol. II, Paris, Gallimard, 1960, p. 167; trad. it. di V. Sereni, L’anima e la danza, in Eupalinos, preceduto da L’anima e la danza, seguito dal Dialogo dell’albero, Introduzione di E. Paci, Milano, Mondadori, 1947, p. 58.

8) F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente. Herbst 1885 bis Herbst 1887, 2 [165], in Werke. Kritische Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/1, Berlin/New York, de Gruyter, 1974, p. 146; trad. it. di S. Giammetta, Frammenti postumi. 1885-1887, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/1, Milano, Adelphi, 1975, p. 135.

9) B. SPINOZA, Ethica, V, prop. XIX; trad. it. di G. Durante, Ethica, con Note di G. Gentile, rivedute e ampliate da G. Radetti, Firenze, Sansoni, 19842, p. 609.

10) Citazione approssimativa di un verso dal poema "Bolest clovereka" (il Dolore dell’uomo) di Otokar Brezina (1868-1929), principale rappresentante del movimento simbolista nella letteratura ceca: “E allora della nostra potenza magica, del mistero della nostra razza, / del privilegio della nostra gloria nascosta abbiamo sopportato la sofferenza".