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Mondializzazione e privazione:
una riflessione sul mondo tra Heidegger e Marx

di Bruno Moroncini

 

Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata

Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede

La morte
si sconta
vivendo

Giuseppe Ungaretti

 

1 ) Vorrei cominciare con una considerazione non filosofica ma di tipo storico e partire perciò dal testo di un grande storico inglese, Arnold Toynbee, che spiazza o potrebbe spiazzare la convinzione, in qualche modo inconsapevole, della totale identificazione dell’Occidente col mondo, ossia di un mondo unico che coincide con ciò che l’Occidente ritiene essere il mondo o riesce a dire del mondo. Il breve intervento di questo storico inglese si intitola Il mondo e l’Occidente, The world and the West (1). La tesi di Toynbee è che il mondo di cui dobbiamo parlare non è l’Occidente ma è esattamente il resto del mondo. L’Occidente non è nemmeno una parte del mondo, perché il mondo in senso stretto è tutto ciò che non è l’Occidente. L’osservazione di partenza di questo testo di Toynbee è che "l’Occidente non è mai stata l’unica parte importante del mondo", né "il solo attore della storia moderna e questo nemmeno all’apogeo della sua potenza"(2), apogeo che nel 1952 secondo Toymbee è forse già passato. Il rapporto tra l’Occidente e il mondo è sempre stato un rapporto conflittuale, dal momento che il mondo ha sempre dovuto subire l’aggressione da parte dell’Occidente. Questo è soprattutto chiaro nella storia moderna, perché l’Occidente, come sappiamo, ha in vario modo, portando la guerra e facendo pressioni di altro genere, costretto il mondo ad aprirsi all’Occidente, nella forma, ad es., più ovvia e immediata di nuovo mercato da occupare. Dunque il mondo ha sempre subito questa irruzione violenta da parte dell’Occidente, che appunto è penetrato nel resto del mondo, che aveva invece la propria tradizione, i propri stili di vita, le proprie credenze, i propri sistemi religiosi e che non aveva vissuto o subito quello che noi chiamiamo invece la "modernizzazione", tratto peculiare del solo Occidente. Il mondo, dice Toynbee, si è difeso in più modi di fronte a questo intervento così violento da parte dell’Occidente e la ricostruzione che egli fa delle varie modalità di incontro-scontro tra l’Occidente, da un lato, e il mondo islamico e il mondo dell’estremo oriente, cioè il Giappone, la Russia e l’India, dall’altro, serve ad elaborare quella che lui defini-sce come una specie di legge della psicologia storica. La tesi è la seguente: quando una cultura come quella occidentale tenta di invadere una parte del mondo o un altro mondo con un’invasione strettamente culturale, per es. col tentativo di conversione di tipo religioso, in genere il mondo resiste, e anche duramente, all’invasione che l’Occidente ha tentato. Quando invece l’Occidente ha invaso il mondo attraverso le innovazioni tecnologiche e fondamentalmente le innovazioni di tipo bellico, il resto del mondo si è lasciato invadere con maggiore facilità, proprio nella convinzione che si potesse separare l’importazione delle tecniche dall’importazione invece dei modelli culturali e delle forme e degli stili di vita.

Pensate per esempio al fatto che Bush vuole importare la democrazia nel mondo islamico: ecco, questo è un tipo di invasione che per Toynbee produrrebbe resistenza, mentre invece è più facile che una cultura passi in un altro mondo in maniera surrettizia e lo invada senza ricorrere a particolari forme di violenza, proprio se in primo luogo entrano le innovazioni tecnologiche. Questo processo è stato oltretutto favorito dal fatto che spesso il mondo ha ritenuto che, per la sua salvaguardia, era necessario impadronirsi delle tecniche occidentali e dunque, con molta facilità, importava innovazioni tecnologiche, tipi di armi diverse senza rendersi conto che, in realtà, l’uso stesso o comunque la possibilità di usare queste tecniche implicava necessariamente l’acquisizione anche delle forme culturali occidentali. In tal modo questa invasione, inizialmente più dura, in realtà era un’invasione, come dire, morbida perché il mondo non resisteva davanti all’effetto intrinseco dell’importazione delle tecniche, per cui adottando queste ultime finiva per adottarne anche la cultura corrispondente. Tutto questo, comunque, ha sempre comportato una difficoltà nei rapporti fra l’Occidente e il mondo che, in fondo, è ancora, nonostante questo testo sia stato scritto nel ’52, quello con cui abbiamo a che fare oggi. Tuttavia, oltre ad accusare l’Occidente di sfruttamento attraverso i fenomeni della colonizzazione o i fenomeni di aggressione e di intervento violento sul mondo, va anche detto però che probabilmente c’è una responsabilità delle élites del mondo che non sono mai riuscite nell’unica operazione che si richiedeva loro, e cioè quella di riuscire a coniugare la modernizzazione che l’Occidente portava, in forma quasi sempre aggressiva e violenta, e le proprie forme di vita, i propri sistemi culturali, modernizzandoli senza tuttavia perderli (3). L’esempio dell’Islam ovviamente è attualmente il più facile e anche quello che rende più complicata questa operazione, ma io penso per esempio all’India e al tentativo di Ghandi di riuscire esattamente a fare questa operazione e cioè di salvaguardare una tradizione propria del mondo indiano e contemporaneamente portare l’India nella modernità. È probabile che questo tentativo non sia sempre riuscito. C’è un’osservazione di Toynbee che io ritengo estremamente interessante e che riguarda le élites che molto spesso poi sono – e questo è un altro problema di cui parleremo fra un attimo – élites di stampo e cultura occidentali. Gran parte delle élites che hanno condotto le lotte di decolonizzazione o anche di liberazione si erano formate in molti casi nelle università europee ed in paesi che erano i paesi colonizzatori. Queste élites, una volta tornate nei propri paesi, hanno tentato di utilizzare paradossalmente contro l’Occidente esattamente quello che avevano appreso dalla cultura occidentale. Queste élites, va detto, quasi sempre hanno fallito. Credo che questo si possa riconoscere. Certo anche per colpa del fatto che l’Occidente, pur dovendo a un certo punto riconoscere l’impossibilità di proseguire nelle forme tradizionali della colonizzazione, molto spesso non ha voluto però mollare effettivamente la presa e di conseguenza attraverso altri mezzi ha continuato a esercitare una forma di dominio su questi paesi. Ma è anche vero che c’è probabilmente un limite di queste stesse élites. Da questo punto di vista mi sembra importante una delle osservazioni che Toynbee fa riguardo all’India: "L’urto dell’Occidente (nel caso per esempio dell’India) ha portato con sé un aumento progressivo di provviste alimentari grazie all’irrigazione, all’introduzione di nuove coltivazioni e al miglioramento dei metodi agrari, tutte metodologie e tecniche ovviamente di ispirazione occidentale; e finora in tali paesi quest’aumento di disponibilità alimentari è andato non già ad elevare il tenore di vita di una popolazione stazionaria o crescente in modo graduale, ma a mantenere la più numerosa popolazione possibile a livello antico, che era ed è appena più su del punto zero. La morte per inedia" (4). Credo che questa sia una valutazione storico-politica sugli errori e le colpe delle élites che hanno governato gran parte dei paesi che noi chiamiamo oggi del Terzo o Quarto mondo, che, in fin dei conti, hanno pure beneficiato, basti pensare al petrolio, di una quantità di profitti che venivano da queste ricchezze oppure dagli usi di metodologie e tecniche importate dall’Occidente senza che ciò sia servito ad innescare un processo di accumulazione capitalistica, come nel caso della Europa moderna, che potesse essere (ecco la scommessa di cui parlavo prima) indirizzato in un altro modo proprio dall’uso creativo ed originale delle specificità culturali di queste parti del mondo. In realtà è come se l’opzione fosse secca: o si diventa come l’Occidente o si è destinati, paradossalmente, ad un aumento del tasso di povertà e ad un peggioramento progressivo delle proprie condizioni complessive pur godendo di una situazione economica e sociale non molto diversa da quella precedente all’invasione occidentale; è un’illusione credere di poter conservare il proprio livello di vita, alto forse se paragonato alle esigenze, di fronte al cambiamento indotto dall’esterno: l’effetto vero è la regressione. E, infatti, Toynbee conclude l’osservazione precedente dicendo che "siccome gli aumenti progressivi di produttività dovranno prima o poi risolversi in margini di rendimento decrescenti il tenore di vita di questa popolazione inflazionata sembra destinato a calare e non esiste alcun margine fra il tenore attuale e il puro e semplice disastro in grande scala": tesi, che enunciata nel ’52, mostra una bella capacità di preveggenza su quello che è accaduto negli anni successivi.

Ora, il punto importante sul quale io volevo soffermarmi rispetto a questo rapporto strano, anche paradossale se volete, fra l’Occidente e il mondo – rapporto che spiazza la nostra immediata convinzione che il mondo sia uno e che il mondo sia l’Occidente e che l’Occidente metta la propria impronta sul mondo per cui l’espansione del mondo coincide con quella dell’Occidente – è che sembra che Toynbee introduca una specie di spaccatura, una linea di frattura all’interno di questa totalità ( totalità solo apparente come avrebbe detto Benjamin) fra l’Occidente e il mondo. Toynbee – stiamo parlando del 1952 – da intellettuale liberal-borghese come probabilmente è, è molto preoccu-pato che questa situazione appena descritta abbia come unico sbocco quello di una vittoria su larga scala del comunismo, cioè che il comunismo, quello sovie-tico o quello che aveva vinto in Cina nel ’49, diventi la soluzione che il mondo userà contro l’Occidente; e il comunismo è d’altronde, dice esplicitamente Toynbee, un’eresia occidentale. Cioè siamo di nuovo di fronte a quella strana situazione per cui l’Occidente, nel momento stesso in cui invadeva e violentava il mondo, offriva tuttavia contemporaneamente al mondo la possibilità di liberarsi dell’Occidente e di prendere una direzione storica che non fosse quella propria dell’Occidente. L’Occidente aveva sviluppato al proprio interno anche una forma di autocritica dell’Occidente ed il mondo avrebbe potuto – proprio facendo leva su questa eresia occidentale – rovesciare il rapporto di forze con l’Occidente. Ovviamente le cose sono andate (forse in una maniera che Toynbee, in qualche modo, si augurava) diversamente perché questa ipotesi, almeno nella modalità storica con la quale si era data e con cui Toynbee ne poteva parlare nel ’52, come sappiamo, a un certo punto è semplicemente collassata e dunque per il mondo io ho l’impressione che le cose si stiano mettendo in termini che sono ancora più complicati di quanto Toynbee potesse pensare nel ’52, perché allora almeno c’erano l’eresia occidentale e il marxismo e il comunismo, anche nel modo con cui si era realizzato poteva essere un’arma in mano al mondo per riuscire a venir fuori da questa logica conflittuale fra il mondo e l’Occidente. Oggi il mondo non sembra avere a disposizione nemmeno questo, nel bene e nel male.

Questa premessa in realtà è una premessa che mi è sembrata importante fare perché chiuderò questo mio intervento con un tentativo di lettura del concetto di mondializzazione il quale altro non è che è il modo con cui si è parlato in anni precedenti al nostro della globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno recente e fondamentalmente sta ad indicare, come sapete, l’abolizione delle frontiere nell’ambito del commercio mondiale, la possibilità anche di dislocazione dei luoghi di produzione da un paese all’altro e dunque il sostanziale passaggio ad una interdipendenza mondiale, per quanto questa interdipendenza mondiale non sia mai del tutto radicale per cui assistiamo a varie forme di chiusura locale e ai tentativi da parte degli stati-nazione di opporsi a questo movimento della globalizzazione. In questo senso una delle questioni che viene affrontata in molti ambiti, sia filosofici, per esempio da un filosofo francese come Jean-Luc Nancy, sia economici, sociologici e politici, è se quello che noi chiamiamo da alcuni anni la globalizzazione non sia in realtà quello che era stato compreso dagli storici e dagli economisti del passato, e infine dallo stesso Marx, come il fenomeno della mondializzazione, cioè della formazione del mercato mondiale. Allora il problema della formazione del mercato mondiale è anche il problema se questo mercato, appunto, questa forma di unificazione del mondo, comporti veramente l’abolizione di quello che Toynbee invece poteva pensare come una forma di frattura interna fra il mondo e l’Occidente.

2) Ma prima di arrivare a Marx, vorrei fare un detour attraverso un luogo di grande portata della riflessione filosofica novecentesca, la meditazione di Heidegger sul concetto di mondo, la cui caratteristica principale rispetto a quello che si è detto fino ad ora è che in essa non esiste nessuna distinzione fra l’Occidente e il mondo. Certo quest’ultimo è un concetto della filosofia, è un’idea, e Heidegger potrebbe replicare a questa osservazione che non era suo compito occuparsi di storia e che dunque questa distinzione o separazione o conflittualità fra il mondo e l’Occidente probabilmente non era e non poteva essere fatta propria da una riflessione di tipo filosofico o di meditazione ontologica quale quella che egli tentava. Però, nonostante questo, allo stesso modo con cui si può notare che in Heidegger l’esserci è asessuato, oppure che la corporeità nelle sue forme più materiali e sensibili, è in qualche modo, se non ignorata, sorpassata, sorvolata di slancio, si potrebbe anche far notare che egli prende la nozione di mondo, ne fa una storia, la sottopone ad un certo lavoro concettuale e le attribuisce una funzione estremamente importante nel suo dispositivo filosofico, saltando a piè pari appunto quelle che potrebbero essere certamente delle considerazioni di tipo storico e politico, ma che non si comprende perché non potrebbero essere categorizzate in chiave filosofica. È noto che uno degli esistenziali trattati e analizzati in Essere e Tempo è esattamente l’essere nel mondo, cioè l’essere nel mondo è un dato costitutivo, si potrebbe dire trascendentale, dell’esserci, è parte costitutiva della sua essenza. Poiché l’essenza dell’esserci è l’esistenza e l’esistenza è il fatto che nell’esserci ne va sempre del suo essere e l’esserci è caratterizzato da Heidegger sempre nella modalità dell’essere nel mondo, allora il mondo è un concetto non derivato, non aggiunto, non accidentale, ma essenziale perché senza questa nozione di mondo non potremmo stabilire qual è la natura propria dell’esserci.

Come si sa ‘esserci’ è un termine tecnico del lessico heideggeriano ed è in base a motivazioni ermeneutiche e ontologiche se Heidegger non usa il termine uomo, ma ricorre all’antico tedesco dasein modificandone il senso; tuttavia è evidente che, parlando dell’esserci, la questione per Heidegger, come per qualunque altro filosofo degno di questo nome, è di capire ciò che specifica l’uomo, l’uomo nel mondo o, come diceva Scheler, il posto dell’uomo all’interno del mondo, cioè che cosa rende l’uomo tale o che cosa è in generale antropogenico. Heidegger avrebbe rifiutato questa terminologia perché gli sarebbe sembrata appunto troppo legata alle scienze empiriche, ad una considerazione soltanto esistentiva, empirica, ma, pur ponendo la questione dell’uomo ad un livello che egli stesso definiva ontologico, era pur sempre la questione dell’uomo quella che affrontava. Nell’Essenza del fondamento, che è un testo del 1928 e dunque è immediatamente successivo a Essere e Tempo, Heidegger fa una brevissima, rapidissima storia del concetto di mondo partendo esattamente dal termine greco kosmos. Che cos’è il mondo? Il mondo, per Heidegger, non è una congerie di fatti, un insieme di tutti gli enti, ma è il come questi enti si manifestano, è l’idea di un ordine che struttura dall’interno il manifestarsi di questa totalità degli enti. A questo proposito Heidegger cita i presocratici: prima un frammento di Anassagora che sostiene che "non stanno disgiunte le une dalle altre le cose nell’unico ordine del mondo e non sono tagliate con la scure, non il caldo è separato dal freddo né il freddo dal caldo" (5), che cioè mette l’accento su questa connessione, su questa complessione del mondo che non è la pura e semplice messa insieme di elementi semplicemente accostati; e poi il famoso frammento di Eraclito in cui si dice che il mondo comune è quel mondo che viviamo da svegli mentre invece quando dormiamo i mondi si separano, si isolano e non si relazionano più. Il rinvio ai presocratici serve appunto ad Heidegger per fondare questo concetto di mondo che è inteso appunto come una totalità indivisa e che sta ad indicare il modo della presentazione della totalità dell’ente e il modo con cui quest’ultima si apre all’esserci, si presenta, si manifesta per l’esserci. C’è a questo punto un passaggio attraverso il concetto di kosmos medioevale che è interessante: Heidegger afferma che il mondo è quel luogo che è caratterizzato dalla lontananza da Dio, dunque il mondo, nel senso della mondanità, è in relazione con un altro mondo, con un’altra sfera; questa sfera dice Heidegger è quella che si caratterizza per dei caratteri che sono i caratteri propri che la tradizione cristiana attribuisce a Gesù e cioè gli elementi della vita, della luce e della verità. Che cosa vuol dire Heidegger con questa notazione? Vuol dire che la nozione greca di kosmos, di mondo ordinato, di mondo pulito, nel mondo cristiano viene – mis-interpretando la tradizione greca – ridotta a pura e semplice realtà mondana e terrestre in cui sono totalmente assenti gli elementi che secondo la prospettiva cristiana sono invece fondanti e che sono appunto la verità – cioè il mondo come luogo di una disvelatezza di qualche cosa che si situa al di là del mondo, che è oltre mondana in questo senso, non necessariamente trascendente ma che dando il senso al mondo non coincide letteralmente col mondo; la vita – cioè il principio del movimento che è anche un principio appunto di crescita e di maturazione non soltanto organica ma spirituale in questo caso; e la luce – immagine questa della luce che come si sa è una metafora chiave della metafisica cristiana, di una parte della metafisica cristiana: la luce nel senso di ciò che infonde vita e calore. Allora per il mondo cristiano, per l’universo cristiano, il mondo diventa soltanto la vita terrestre e invece gli elementi che per questa prospettiva cristiana sono i più importanti appartengono ad un altro mondo. Perché questo passaggio è importante? Perché quello che interessa Heidegger in questa rapida ricostruzione del concetto di mondo è di arrivare rapidamente alla concezione moderna, il che vuol dire rapportarsi, dopo aver saltato a piè pari le ultime propaggini della metafisica, cioè Wolff e Baumgarten, alla fislofia di Kant.

Infatti in Kant accanto alla determinazione tradizionale del mondo (da cui la cosmologia razionale come parte della metafisica speciale), cioè al mondo come totalità di enti retti da un principio o legge razionali, si affaccia nell’ambito dell’antropologia un significato esistentivo che però ha perso i tratti cristiano-medievali. Anche se il mondo è trattato come una totalità di enti essi però sono visti come degli oggetti conoscibili da un essere razionale finito, sono cioè rapportati all’uomo, non a Dio o all’ente in generale. Ora parlare di un essere razionale finito significa anche parlare, nell’accezione heideggeriana, di un essere storico. E infatti quello che colpisce a leggere questi passaggi de L’essenza del fondamento è la rapidità, un po’ pindarica per la verità, con cui Heidegger passa dalla cosmologia razionale all’antropologia, ossia il modo con cui pone in primo piano una distinzione, quella fra la filosofia come concetto scolastico (Schulbegriff) e la filosofia come concetto cosmico (Weltbegriff), che certo era già presente nella Critica della ragion pura, ma che acquista tutta la sua importanza proprio in quei testi tardi di Kant, come appunto l’Antropologia pragmatica, in cui si tematizza la conoscenza filosofica come conoscenza tipica dell’uomo di mondo, dell’uomo cioè fatto esperto dal suo rapporto col e al mondo.

Ciò che, secondo Heidegger, diviene sempre più rilevante in Kant è il mondo come luogo storico e culturale, cioè come quell’ambito in cui l’uomo gioca anche la propria destinazione, in cui mette alla prova l’eredità che ha ricevuto e la trasforma in un compito storico-destinale. Essere un ‘uomo di mondo’ significa allora sviluppare una conoscenza che non è più una conoscenza puramente razionale e trascendentale ma una conoscenza concreta, una conoscenza storica, una conoscenza che è legata appunto anche alle situazioni emotive, alla destinazione, o anche a ciò che Heidegger chiama la deiezione, cioè al trovarsi da parte dell’esserci in una data situazione linguistica, temporale storica e se si vuole anche di classe - insomma anche se Heidegger cose del genere non le dice mai, noi però possiamo farlo, possiamo utilizzarlo e forzarlo addirittura a dire che a esempio c’è una bella differenza ad essere un esserci che nasce in Italia nel 2003 da un esserci che invece si trova deietto, che ne so, nell’Africa centrale; e questo è un problema che ci riallaccia esattamente alle questioni che ho provato a sollevare a partire da Toynbee.

In verità il vero luogo in cui Heidegger tematizza la questione del mondo è il seminario immediatamente successivo, quello del ’29-30 che si chiama Concetti fondamentali della Metafisica e porta poi come sottotitolo queste tre parole chiave della filosofia heideggeriana che sono il mondo, la finitezza e la solitudine. Di questo seminario voglio soltanto individuare un punto, che io credo sia importante, in cui Heidegger, pur dichiarando esplicitamente che non fa dell’antropologia, dal momento che l’antropologia è una disciplina empirica, pur insistendo sul fatto che bisogna prendere distanza da ogni biologismo e da ogni interpretazione dell’uomo come un ‘animal rationale’, cioè come una componente del mondo vivente cui si aggiungerebbe, come protesi o come potenziamento, questo elemento che è la ragione-linguaggio, stabilisce egualmente la specificità dell’uomo – risponde cioè a una questione eminentemente antropologica – e lo fa attraverso il rapporto specifico che l’esserci ha con il mondo rispetto all’animale da un lato e al non vivente dall’altro. Certo la cosa strana ed interessante credo sia questa: non si tratta più di indicare la posizione dell’uomo, cioè che cosa renda l’uomo veramente tale, stabilendo dove finisce la parte animale in lui e dove incomincia quella, invece, spirituale, razionale e via di seguito, ma si tratta di cogliere la differenza fra l’uomo e l’animale in riferimento alle modalità con cui l’animale e l’uomo si rapportano al mondo. Cioè la differenza non passa più dentro l’uomo fra la parte del suo essere che partecipa della natura animale e quella che appartiene alla sfera della razionalità, come per certi versi pensava ancora Kant, ma nella modalità con cui animale e uomo si rapportano diversamente rispetto al mondo.

Secondo Heidegger si tratta di fare un’osservazione comparata fra tre modalità diverse di rapporto che corrispondono ai tre regni della natura: "la pietra, scrive, (l’ente materiale) è senza mondo (weltlos), l’animale è povero di mondo (weltarm), l’uomo è formatore di mondo (weltbildend)" (6). In Heidegger, tuttavia, nonostante la presa di distanza da ogni biologismo, c’è un ricorso enorme alla biologia più avanzata della sua epoca; c’è un costante utilizzo di quel che è stato, probabilmente, il più grande studioso di biologia e di comportamento animale che si sia mai dato, cioè von Uexküll, autore letto e usato da moltissimi pensatori di questo momento storico, un best-seller della cultura europea degli anni trenta. Se Heidegger si rivolge a questo autore non è perché egli abbia una visione biologistica dell’uomo, quanto perché la sua analisi del comportamento animale in rapporto al mondo gli serve per determinare per differenza lo statuto dell’esserci umano. Quando abitualmente si pensa all’animale, al suo comportamento e al suo rapporto col mondo, si ritiene risolta la questione cavandosela con il ricorso all’istinto: quest’ultimo regolerebbe il comportamento dell’animale e costituirebbe il suo modo di rapportarsi al mondo esterno. Tutto giusto a patto di notare però, come Heidegger mette in evidenza proprio sulla scorta delle ricerche di von Uexküll, che in realtà se è vero che l’animale sulla base di uno stimolo che può essere olfattivo, visivo etc., scatena una sequenza comportamentale che è quella che noi chiamiamo istintuale la quale a propria volta lo pone in relazione con una porzione di mondo, è tuttavia anche vero che essa finisce per rinchiuderlo in questa porzione di mondo. L’esempio è quello bellissimo dell’ape. L’ape è stimolata dalla presenza del fiore e incomincia a succhiare il nettare, ma se si apre l’addome dell’ape, ci si accorge che essa, per essere stata precedentemente stimolata dalla presenza del nettare, continua tranquillamente a succhiare senza rendersi minimamente conto che il nettare le cola giù dall’addome aperto. L’ape di conseguenza è stupida, e infatti la chiave, la categoria chiave che Heidegger utilizza per spiegare il rapporto dell’animale col mondo, quella ragione per cui l’animale è povero di mondo, è lo stordimento. L’animale, in realtà, quando l’istinto si scatena è stordito, cioè non capisce più niente. Se ad esempio vede la femmina, che può essere anche una femmina dipinta sul muro, l’animale è talmente stupido che avrà una serie di reazioni che lo rendono pronto per l’accoppiamento. In questo caso è certo che l’animale è in rapporto con un ambiente ma questo rapporto è, come dire, univoco ed è anche un rapporto chiuso, perché l’animale non è in grado di uscire fuori da questa piccolissima cerchia cui è legato e in cui e da cui è stato totalmente catturato (7).

Insomma l’animale è ottuso, il che vuol dire che l’animale non sta nel mondo nella modalità dell’apertura. Questo spiegherebbe la grande polemica che Heidegger fa con Rilke affermando che non è vero che l’aperto di cui parla il poeta sia quello di cui parla lui, perché proprio il riferimento all’animale che, dice Rilke, sta nell’aperto, in realtà è falso perché l’animale non si apre a niente, l’animale si chiude ogni volta che si scatena una catena istintuale, una sequenza di comportamenti istintuali, l’animale si chiude in una parte di mondo. Quindi non è vero che stia nell’aperto. Solo dell’uomo si può dire che è nell’aperto. E se questo può essere detto solo dell’uomo è perché egli non è guidato da una struttura di tipo istintuale e il mondo per lui non è quell’ambiente dove comparendo una femmina scattano immancabilmente i comportamenti della seduzione, oppure apparendo il nettare l’ape non può fare a meno di mettersi a girare e segnalare in tal modo alle altri api la presenza del nettare oppure succhia il nettare e non si rende conto che succhia a vuoto e via di seguito, ma è il luogo della disvelatezza, dell’apertura a qualcosa di altro dal mondo, a qualcosa che non è il mondo ed è al di là del mondo.

Il mondo rimanda costantemente ad una differenza, alla differenza, se vogliamo usare i termini tecnici di Heidegger, fra l’essere e l’ente. Se il mondo è la totalità dell’ente, lo è solo perché è allo stesso tempo la manifestatività di ciò che non è ente, ma a partire da cui l’ente è l’ente che è, vale a dire l’essere. Nel suo intervento di stamattina Masullo l’ha chiarito splendidamente: il mondo si deve manifestare e la manifestazione del mondo deve essere pulita, deve essere chiara, trasparente. Il mondo in questo è aperto: è aperto nel senso appunto che noi lo trapassiamo con lo sguardo, dunque non restiamo legati agli aspetti singoli del mondo, non restiamo chiusi in questo ente, questa piccola porzione di mondo, ed il resto non lo si vede più, ma siamo costantemente, per così dire, al limite del mondo: come se noi stessimo sempre situati sulla linea dell’orizzonte, pronti a slanciarci al di là del mondo. Questo ci permette poi di totalizzare il mondo (l’animale non totalizza nulla) e ci permette anche di circoscriverlo e ci permette per esempio, come viene detto in Essere e Tempo, attraverso quella situazione emotiva fondamentale che è l’angoscia, di vederlo collassare come mondo in cui siamo chiusi ed essere chiamati, destati invece, al fatto che attraverso il mondo si manifesta qualche altra cosa che non è il mondo, anche se solo attraverso il mondo noi possiamo essere posti in rapporto con esso e che questo altro è ciò che Heidegger chiama l’essere.

Tuttavia l’aspetto interessante di questo discorso su cui vorrei richiamare l’attenzione è che la differenza fra l’uomo e l’animale è elaborata da Heidegger paradossalmente secondo un modello molto tradizionale, nel senso che per stabilire che cosa è l’uomo si cerca ancora una volta di dire in che cosa l’uomo non sia un animale. È vero che Heidegger ha liquidato le ipotesi biologiste e ha voluto mettere una distanza molto esplicita con la vecchia concezione dell’uomo come ‘animal rationale’, ma è anche vero che alla fine il termine di riferimento continua ad essere l’animale, perché il problema è che ad Heidegger non viene mai in mente che gli uomini possano diventare come le pietre, cioè che all’uomo possa capitare, in un’epoca dell’essere, nel senso appunto di un nuovo modo della manifestazione dell’essere, di diventare privo di mondo come una pietra, l’ente materiale. La pietra viene sì messa in gioco in questa osservazione comparativa, ma solo per essere immediatamente tolta di mezzo. La condizione del non avere mondo Heidegger non la calcola minimamente. La differenza di nuovo è fatta fra la povertà di mondo, che è propria dell’animale, e invece l’apertura al mondo, l’essere nel o l’essere al mondo che caratterizza l’uomo. La differenza è sempre una differenza con l’animale e tuttavia Heidegger può sostenere egualmente di non cedere in nulla ad una interpretazione naturalistica dell’uomo o ad un’interpretazione metafisica, dove per metafisico si intenda il fatto che l’uomo sia questa specie di ibrido, di doppio, formato da natura e spirito. L’antropogenesi per Heidegger si compie dunque nel rapporto al mondo, l’uomo si fa tale in quanto è questo ‘a’ dell’essere-al-mondo. Il senso dell’uomo, la sua dignità, risiedono nel mondo e nella capacità di dar forma al mondo. E se l’uomo può dare forma al mondo è perché la sua essenza è mondana, consiste nell’essere al mondo, nell’essere apertura al mondo. Il che significa ancora una volta: vita, luce e verità.

 

3) Ad essere onesti non è che Heidegger non si rendesse conto della mondializzazione/globalizzazione del mondo: questa stessa riflessione sul mondo, la tripartizione del rapporto col mondo - esserne privi, esserne poveri e formarlo - è stata elaborata molto probabilmente perché ad Heidegger era chiaro che la modernizzazione capitalistica, l’industrializzazione, cioè tutto ciò che egli poi ha chiamato con un unico nome, e cioè ‘tecnica’ – letta, e in ciò c’è tutta la grandezza di Heidegger, come un’epoca dell’essere e non come un qualcosa di empirico o di storico nel senso della Historie, della storiografia, ma di storico in senso essenziale e destinale (geschichtlich) – poteva condurre esattamente alla scomparsa del mondo. Ma a differenza di Heidegger che non sembra rinunciare al riferimento alla vita animale per determinare l’essenza dell’uomo, noi non possiamo schivare la domanda: che cosa accade al mondo e quindi all’uomo, che cosa accade all’essere nel mondo, all’essere-al-mondo da parte dell’uomo, quando il mondo si mondializza e/o si globalizza, quando si forma il mercato mondiale, quando il mondo è governato da istituzioni internazionali, sovranazionali, in una parola mondiali e quando purtroppo anche le sue guerre diventano mondiali? Non accade forse che il mondo scompare, si perde, che si diviene senza mondo, privi di mondo come le pietre? Certamente continuano ad esistere uomini, ma l’uomo nel senso di quell’ente che nel suo stesso esistere in quanto essere-al-mondo è domanda sul senso dell’essere, cioè sulla verità, ebbene questo tipo d’uomo, questa idea dell’uomo, non esiste più, è definitavamente morta. La fine del mondo che viene così teorizzata, in concomitanza coi fenomeni della mondializzazione o della globalizzazione, va di pari passo con il rischio della fine dell’uomo.

La fine dell’uomo non è un problema nuovo: è stata tematizzata più volte e in questa sede mi limiterò a due esempi oltre che a un richiamo a Nietzsche da cui tutti gli altri bene o male discendono. Affermando infatti che l’uomo è qualcosa che deve essere superato, Nietzsche intendeva dire che così com’era, così come risultava costituito sia per opera dell’evoluzione naturale che delle vicissitudini storiche, l’uomo era qualcosa di non determinato, non finito, non completo, ma passibile di un’ulteriore mutazione, tesi questa che procedeva di pari passo con quella della scomparsa delle opposizioni tradizionali fra mondo vero e mondo apparente, per cui la fine del mondo si accompagnava sempre al problema della fine dell’uomo. Il primo dei due esempi che farò è quello delle lezioni di Kojeve sulla Fenomenologia dello spirito in cui viene sostenuto che la fine della storia annunciata da Hegel nella forma del riconoscimento generalizzato delle autocoscienze si è infine realizzata. Da cui la questione: che cosa si dà dopo? Se la storia, che è una storia di lotta per l’affermazione costante del riconoscimento, è giunta al suo termine, con che tipo di mondo e di uomo avremo a che fare? Kojeve fa due ipotesi: secondo la prima, l’uomo tornerebbe ad essere un semplice animale – ma, direbbe Heidegger, come fa a tornare alla povertà di mondo quando, invece, era entrato in un mondo storico? In base alla seconda ipotesi, elaborata da Kojeve dopo un viaggio in Giappone, l’uomo post-storico diventerebbe come i giapponesi, i quali pare che non conoscano i conflitti di classe ma conoscono, invece, le cerimonie, hanno sviluppato cioè una capacità di estetizzare la loro esistenza, di formalizzarla, e non hanno più bisogno di ricorrere alla lotta e al conflitto per risolvere i loro problemi (8).

Il secondo esempio è quello della tesi della ‘fine dell’uomo’ sviluppata da Foucault negli anni settanta del secolo scorso. In base a questa tesi l’uomo è l’oggetto delle cosiddette scienze umane ed è dunque un concetto legato ad una determinata situazione storica, ad un certo stadio della storia dei saperi scientifici, ad una certa configurazione dell’archivio del dicibile. Modificatasi la situazione, cambiato lo statuto dei discorsi e delle discipline, l’uomo ha cessato di essere il punto di riferimento della ricerca archeo e genealogica e il suo posto è stato preso dalla rete impersonale del potere, dai rapporti di forza e dall’analisi del corpo. Da questo punto di vista l’uomo cui eravamo abituati è finito.

Si può dire comunque che ciò cui abbiamo assistito durante il corso del ‘900 è stato un fenomeno che, a dispetto di Heidegger e del suo progetto, non può che essere definito come il fenomeno della fine del mondo. Nel 1993, dunque in tempi abbastanza recenti, Jean-Luc Nancy ha affrontato in maniera diretta questo tema della fine del mondo. In un saggio che si chiama appunto Il senso del mondo si trova questo enunciato che non sarà forse particolarmente profondo dal punto di vista teoretico, ma che in compenso è molto suggestivo e fa capire subito qual è la posta in gioco: "Non c’è più un mondo, più un mundus, né un cosmos, né un ordine composto e completo all’interno o dall’interno del quale trovare uno spazio, un soggiorno e segni per orientarsi. O ancora non c’è più il ‘qui-in-basso’ di un mondo che fa passare verso un aldilà del mondo o verso un oltre-mondo. Non c’è più uno Spirito del mondo, né una storia davanti al cui tribunale si possa essere portati. Detto altrimenti, non c’è più senso del mondo" (9). Se ci ricordiamo che per Heidegger l’esserci era quell’ente che poneva la domanda sul senso dell’essere perché la sua esistenza coincideva con l’essere-nel-mondo o, come scrive Nancy, con l’essere-al-mondo, si comprende facilmente che il fenomeno della fine del mondo comporta anche la fine del senso, la fine del senso del mondo e la fine del mondo del senso. La storia del ‘900 sembra essere andata quindi in una direzione opposta a quella heideggeriana.

Ora è molto probabile che Heidegger si sia reso conto di questa situazione, che abbia capito che il senso del mondo appunto non era qualche cosa che andava trovata in un altro mondo – questo spiegherebbe la sua presa di distanza dal mondo medioevale, dalla concezione del mondo medioevale – che il mondo storico era il mondo dove si dava la verità, dove si dava la vita e tutte le sue possibilità e che abbia creduto di conseguenza, per usare una distinzione terminologica e concettuale che è propria anche di Masullo, che bisognava lasciar perdere il senso, se per senso intendiamo il significato che noi vogliamo attribuire al mondo e alla totalità, ma si poteva lasciare semplicemente il livello del senso, inteso questa volta non come significato ma come sentire il rapporto immediato che si ha col mondo. La tesi di Heidegger, nell’unica volta in cui parla esplicitamente di un’etica, cioè di un modo di condursi, è quella dell’abbandono, cioè del lasciar essere, del corrispondere senza più nessuna pretesa di dare un senso al mondo, cioè un significato, stabilizzato e definitivo, perché sarebbe in fin dei conti una fuga dalle responsabilità che invece il mondo come costante apertura e manifestatività dell’essere ci pone (10). Che Heidegger non sia stato all’altezza di questa sua stessa decisione, trova conferma, a mio parere, nel fatto che egli abbia aderito, anche se per un anno, al nazismo, e poi se ne sia subito staccato. Perché Heidegger aveva fatto un ragionamento simile in parte a quello che secondo Toynbee avrebbero dovuto fare le élites del mondo: si può coniugare la tecnica con il senso, il fenomeno della modernizzazione-mondializzazione-globalizzazione con ciò che nel linguaggio della metafisica occidentale si chiama la verità dell’essere? Ora Heidegger ritenne che il nazismo, in quanto movimento storico-politico, fosse un modo di rispondere esattamente a questo problema, cioè riuscisse a coniugare - cosa che ad Heidegger sembrava non essere riuscito alle democrazie occidentali, cioè all’occidente, e che non riuscisse nemmeno all’Unione Sovietica, cioè a quell’altro modo, al modo eretico, di essere occidentale – a tenere assieme il senso e il dominio mondiale della tecnica. La mia opinione è che Heidegger si sia accorto di essersi sbagliato, ma nel senso che comprese che il nazismo non era andato sufficientemente avanti su questa strada. Questo spiegherebbe tutto quello che egli scrive in quegli anni bui, e di cui abbiamo saputo dopo, e cioè che, negli anni successivi al ’33, quando legge Nietzsche soprattutto, egli attacchi esattamente il biologismo e il naturalismo dell’ideologia nazista. Infatti, il problema dell’individuazione di che cos’è è l’uomo Heidegger voleva riuscire a coglierlo liquidando qualunque ipotesi biologista, ma proprio usando la biologia più avanzata e più recente, stabilendo che il problema non era quello che l’uomo era anche un animale ma stabilendo la differenza fra uomo e animale rispetto al loro rapporto al mondo. Infine il fatto che per lui il nazismo fosse in realtà una fuga dalla responsabilità storica di coniugare senso e tecnica, se per un verso spiega il suo distacco dalla politica attiva, le sue dimissioni dal rettorato ed anche le sue affermazioni successive di essere stato in fin dei conti un sorvegliato speciale del regime, dimostra d’altra parte che egli non era cambiato, che era restato quello che era sempre stato: un ‘vero’ nazista. Era il nazismo storico in realtà a non corrispondere a ciò che egli aveva creduto e sperato.

Una controprova di tale affermazione la possiamo trovare in una frase pronunciata da Heidegger in una conferenza del 1949 che è stata utilizzata per inchiodarlo alle sue responsabilità, per far vedere quanto il suo atteggiamento davanti ai campi di concentramento fosse cinico; una frase che, non a caso, in occasione della pubblicazione della conferenza, Heidegger eliminò e che poi, una volta messi in circolazione i dattiloscritti, fu costretto a reinserire. La frase è la seguente: "La fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas è nella sua essenza la stessa cosa di una agricoltura come industria alimentare motorizzata, la stessa dei blocchi e della riduzione dei paesi alla fame (probabile riferimento alla Germania trattata dai vincitori come un paese sconfitto e da punire), la stessa cosa della fabbricazione delle bombe all’idrogeno" (11). Si è sempre rimproverato ad Heidegger il carattere blasfemo dell’accostamento, il paragone fra la produzione in serie dei cadaveri nei campi di concentramento e l’industrializzazione dell’agricoltura. Ma Heidegger voleva dire proprio questo: una tecnica totalmente dispiegata ma in pieno oblio dell’essere, cioè senza che si riesca a coniugare il dominio della tecnica con il senso dell’essere, non può produrre che l’indifferenza, l’indistinguibilità fra la produzione dei cadaveri e quella delle barbietole o dei tuberi. È evidente che, se la tecnica domina, se c’è l’impianto (ed è il titolo della conferenza), allora non è più possibile fare queste differenze perché la differenza sarebbe possibile soltanto se noi riuscissimo a ristabilire un rapporto al mondo dal momento che solo nel rapporto al mondo l’essere potrebbe nuovamente manifestarsi all’uomo. Un uomo che invece, qualunque cosa ne pensasse Heidegger nel 1929-30, non solo aveva cessato di essere formatore di mondo e neppure si era accontentato di diventare come l’animale povero di mondo, ma era diventato privo di mondo come una pietra, come un ente materiale qualsiasi, e che, prima morto asfissiato nelle camere a gas e poi bruciato nei forni crematori, si era infine trasformato in cenere (12).

 

4) Prima di avviarmi alla conclusione con un richiamo a Marx, provo a ricapitolare: il problema che abbiamo davanti è che il novecento ha posto la questione del mondo non tanto nel senso di una ricaduta verso la povertà, come se noi retrocedessimo al livello dell’animale, ma nel senso invece di una privazione di mondo, cioè di un collasso del mondo inteso appunto come luogo dove si manifesta il senso e la possibilità del senso e dunque della dignità umana. Questo mondo è esattamente ciò che sta venendo meno.

Si tratta allora di vedere se sia possibile leggere il fenomeno della mondializzazione che implica necessariamente quello della fine del mondo e della fine del senso in una chiave che da un lato tenga conto del dispositivo di Heidegger riconosciuto come uno dei più adeguati al compito della comprensione della modernità, e dall’altro sia in grado di superarlo, di procedere oltre. Nessuna meraviglia se questa chiave la individueremo in Marx, cioè in un dispositivo di pensiero che dal punto di vista della temporalità empirica e della storiografia viene ‘prima’ di quello heideggeriano: le eredità storiche, come abbiamo capito, non seguono la cronologia dei calendari.

Per incominciare prendo spunto da un altro testo di Nancy, un testo recentissimo, che s’intitola La creazione del mondo o la mondializzazione (13). Nancy prende le mosse da una lunga citazione di un passo di Marx dell’Ideologia tedesca, la cui lettura non può che produrre un moto d’ilarità: Marx è un autore e l’Ideologia tedesca un testo che da anni non si leggono più, eppure questo passo sembra scritto ieri e se non si sapesse da che cosa è tratto lo si potrebbe prendere per un articolo pubblicato su un numero molto recente di un qualunque quotidiano. Se la domanda, ieri come oggi, riguarda la natura e lo statuto della mondializzazione/globalizzazione, la risposta di Marx è che lo sviluppo storico del capitale comporta la scomparsa progressiva delle nazioni e la tendenza alla storia universale "cosicchè se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale; oppure lo zucchero e il caffè dimostrano la loro importanza storica universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti, provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del 1913"(14). Quindi se si volesse attualizzare il ragionamento di Marx, si potrebbe dire che la guerra per il petrolio potrebbe portare l’Iraq a fare una gloriosa guerra di liberazione, e poi non è detto che ciò non possa accadere. Con la base della situazione attuale del popolo iracheno si può non essere molto fiduciosi, però tutto è possibile.

La prima conseguenza che Marx trae da queste considerazioni è che nella valutazione del fenomeno storico della mondializzazione, cioè della formazione del mercato mondiale e dell’interdipendenza fra gli stati, le economie e gli assetti sociali, bisogna calcolare anche "il fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono sempre stati asserviti ad un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo), ad un potere cioè che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale" (15). Ciò che Marx e Engels stavano descrivendo nel 1845-1846 coincide, mi sembra, con ciò che noi oggi chiamiamo ‘globalizzazione’ e molto correttamente questo evento era da loro rubricato sotto l’etichetta della mondializzazione, ossia della formazione del mercato mondiale e della storia come storia universale. Allora non possiamo non porci la domanda: la mondializzazione capitalistica, cioè la formazione del mercato mondiale, coincide con quella nozione e quella esperienza del mondo di cui parla Heidegger tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta o piuttosto deve essere identificata con la totale privazione del mondo? Heidegger come l’avrebbe vista, e come di fatto l’ha vista, la mondializzazione, come una chance o al contrario come la perdita totale di umanità e la resa completa al dominio della tecnica? Il punto è che Marx fa un’operazione esattamente inversa a quella tentata da Heidegger negli anni Trenta. Se è vero infatti che la mondializzazione, la formazione del mercato mondiale, si presenta agli individui come un potere ad essi estraneo e oppressivo – tanto che essi hanno tentato di raffigurarselo come un dispetto del cosiddetto Weltgeist, dello spirito del mondo, il che è un riferimento più che polemico nei confronti di Hegel –, è anche vero però che questa formazione del mercato mondiale è la condizione – non una fra le tante, ma la condizione essenziale, la condizione vera e propria - per una loro totale emancipazione.

Scrive Marx: "Con il rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista e l’abolizione della proprietà privata, che con essa s’identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione(anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di tutta la terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale, questa forma spontanea di cooperazione degli individui sul piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze reali le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee" (16). È più che chiaro che per Marx la liberazione degli individui da questo potere estraneo coincide con il fatto che la storia cessi di essere una storia locale e diventi una storia universale. Il che, in altri termini, vuol dire che la possibilità dell’emancipazione passa esattamente attraverso la sottomissione ad un potere estraneo. Si deve formare una potenza astratta, estranea, che è esattamente quella del mercato mondiale, perché poi sia possibile la rivoluzione comunista. Gli individui non potrebbero liberarsi se non si fosse realizzato questo piano unico, questo universo – di fede avrebbe detto Bruno – in cui però dialogano e convivono gli infiniti mondi, vale a dire gli individui, i punti di vista, le prospettive, nessuno dei quali può pretendere di avere un’esclusiva e di valere da condizione assoluta. Non c’è nessun punto di vista che possa pretendere di imporsi come il punto di vista che centralizza tutti gli altri, che li sottomette; ed è per questo che dobbiamo distinguere tra l’unità e l’universalità, nel senso che l’universale di cui parla Bruno è quello che non pretende affatto di unificare, sotto un comando, un dominio, la infinita pluralità dei punti di vista, ma è tale da fare in modo che questa pluralità non resti irrelata, scissa, ma entri nello scambio e si apra all’incontro e alla interdipendenza, che la ricchezza spirituale e reale degli individui dipenda interamente dalla ricchezza delle relazioni reali dell’univer-sale. È chiaro, dopo quanto si è detto, che soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione, anche spirituale, di tutto il mondo e messi in condizione di fare in modo che tutta la terra sia una loro creazione.

Si comprende allora perché Nancy citando questo passo dell’Ideologia tedesca possa parlare della ‘creazione del mondo’ (17) e renderla equivalente alla ‘mondializzazione’: dal punto di vista di Marx questi non sono due fenomeni non solo distinti ma addirittura, come in Heidegger, opposti, sono lo stesso fenomeno. Proprio perché implica la fine del mondo, la fine del mondo come manifestazione del senso, e la sua trasformazione in una potenza estranea, in una forza pietrificante, la mondializzazione si rovescia in creazione del mondo, in emancipazione. La dialettica marxiana pone in relazione gli estremi in quanto estremi, tiene ferma esibendola la contraddizione: la dipendenza universale, l’estraneazione congiunta alla mondializzazione/globalizzazione, si rovesciano in controllo consapevole, in creazione del mondo. Si può sempre dire che Marx sia un po’ troppo hegeliano, sia un po’ troppo coscienzialista ma questa è l’accusa minore che gli si possa fare; in realtà, quello che mi sembra più importante, è che egli faccia coincidere la mondializzazione, la formazione del mercato mondiale, con la creazione del mondo: per arrivare a questo esito c’è bisogno di un passaggio, che consiste nel mettere il mondo sottosopra, di rivoltarlo visto che esso è a sua volta invertito, ‘renversato’. Questo mondo va messo di nuovo a testa in su, e dunque dobbiamo mettere sottosopra un mondo che è oggettivamente invertito, non invertito nella ideologia ma invertito nella realtà. Il comunismo insomma si gioca tutto in funzione di un passaggio al piano universale, si appropria dello sviluppo delle forze produttive, che, come il Manifesto sosterrà in modo esplicito alcuni anni dopo, fa collassare i mondi privati, i mondi piccoli, i mondi locali, i mondi nazionali, i mondi delle piccole comunità, delle comunità familiari, di tutte le comunità appunto che stringono e che impediscono lo sviluppo dell’individuo.

Vorrei chiudere citando un passo dei Lineamenti fondamentali dell’economia politica in cui tutto questo discorso si connette per Marx, come d’altronde per Nancy, con il tema del valore: "Il capitale, scrive Marx, attua la produzione della ricchezza stessa e perciò lo sviluppo universale delle forze produttive, la rivoluzione permanente delle sue premesse esistenti, come presupposto della sua riproduzione. Il valore non esclude nessun valore d’uso; e perciò non include nessun particolare genere di consumo ecc, di relazioni come condizione assoluta, e parimenti ogni grado di sviluppo delle forze produttive sociali, delle relazioni, del sapere non sono altro per esso che un ostacolo che esso si sforza di sormontare. Persino il suo presupposto – il valore – è posto come prodotto, non come presupposto aleggiante al di sopra della produzione" (18). Anche in questo caso noi abbiamo la tendenza a valutare la formazione del mercato mondiale, vale a dire l’incessante trasformazione dei valori d’uso in valori di scambio, in modo negativo, come una perdita di senso dell’umano. È d’altronde ancora una volta la posizione di Heidegger: la mondializzazione, lo sviluppo della tecnica, la riduzione a ‘fondo’ disponibile della totalità dell’ente, che altro non indicano sotto un nome diverso che il fenomeno capitalistico per eccellenza, vale a dire la trasformazione di ogni valore d’uso in valore di scambio, di ogni oggetto in merce, costituiscono per Heidegger un processo storico-epocale che denota la scomparsa o la sempre maggiore difficoltà di riuscire a tematizzare il senso e/o la verità dell’essere. Il processo della valorizzazione ha invece in Marx un tutt’altro senso: come nota anche Nancy (19), esso finisce per produrre una forma-valore che non solo non coincide con nessun valore d’uso ma che va addirittura al di là del valore di scambio, dal momento che di questa forma-di-valore il valore di scambio non è altro che la sua manifestazione invertita, cioè feticistica. Messo a testa in su, reinvertito, il valore di scambio non retrocede verso il valore d’uso, ma, rivelandosi come plus-valore, si svela anche come più-che-valore, una forma di valore che oltrepassa l’ambito del mercato e dello scambio. Questo valore che non è più un valore, che non è più relativo ma tende a essere assoluto, ossia sciolto da qualunque condizione storico-empirica, sociologica, psicologica etc, che cos’è se non quello che Kant definiva la ‘dignità’ e opponeva al prezzo? Privo di prezzo o piuttosto al di là del prezzo, cioè del suo valore di scambio, il valore è quell’eccedenza – plus-valore e più-che-valore – che sfugge, programmatica-mente si potrebbe dire, al regime d’equivalenza proprio dello scambio e insieme alla riduzione naturalista-biologista del valore d’uso. Un tale valore che non è neppure il valore del lavoro, se è vero che per Marx tale valore non esiste ed è piuttosto il lavoro sotto forma di plus-lavoro a produrre il valore, non coincide con nessun valore d’uso particolare, o per dirlo meglio, non ne esclude nessuno; piuttosto li attraversa tutti, li trasforma, li afferra nel suo movimento e in tal modo li rende universali, li apre alla dimensione della mondializzazione e/o della globalizzazione, li include nella creazione del mondo. Questo movimento per il quale non esiste più un valore d’uso che sia privilegiato o che detti legge sulla produzione e sul consumo in generale, ma in cui e per cui tutto diventa valore di scambio e trasformandosi in valore di scambio produce quel di più che Marx chiama il plus-valore, vale a dire la quota di valore che non è reinvestibile all’interno del sistema degli scambi e che dunque non è di nuovo trasformabile in una merce pronta per essere venduta sul mercato, quella parte del valore che appunto per questo è senza prezzo e possiede soltanto dignità, questo movimento è esattamente l’equivalente della mondializzazione, della formazione del mercato mondiale. Soltanto il mercato mondiale, facendo collassare il mondo, il mondo nel senso che ad esso dava Heidegger, rendendo gli esseri umani privi di mondo, è la condizione dell’emancipazione umana, a patto ovviamente che si dia quell’inversione che è la rivoluzione per Marx e che consiste nel rimettere il mondo come stava prima, dal momento che il mondo per crescere si è dovuto ‘rinversare’.

Il mondo è antropogenico, fonda la dignità dell’uomo, a condizione di essere il mercato mondiale, il mondo della mondializzazione capitalistica, a condizione insomma che l’uomo diventato come pietra o cenere sia quell’ente che non ha mondo, che è privo di mondo, che è senza mondo.

 

Note

1) Cfr. A. Toynbee, Il mondo e l’occidente (1952), tr. it. di G. Cambon, Sellerio, Palermo 1992.

2) Ivi, p. 11.

3) Su questo punto si vedano le importanti considerazioni svolte da Giacomo Marramao nel suo Passaggio a Occidente, Bollati Boringhieri, Torino 2003, soprattutto il primo capitolo.

4) A. Toynbee, Il mondo e l’occidente, cit. p. 54.

5) M. Heidegger, L’essenza del fondamento, tr. it. di P. Chiodi in Id., Essere e tempo. L’essenza del fondamento, Utet, Torino 1969, pp. 644-658.

6) M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo - finitezza - solitudine, tr. it. di P. Coriando, il Melangolo, Genova 1983, p. 232.

7) Ivi, p. 302 sg.

8) Su questo punto rinvio al mio La scena del presente. ‘Storicismo’ e ‘fine della storia’ in Michel Foucault, in AA. VV., Genealoga dell’umano. Saggi in onore di Aldo Masullo, Guida, Napoli 2000, p. 365 sg.

9) J-L. Nancy, Le sens du monde, Galilée, Paris 1993, p. 13.

10) Su questo punto si veda J-L. Nancy, L’"etica originaria" di Heidegger, tr. it di A. Moscati, Cronopio, Napoli 1996.

11) M. Heidegger, Conferenze di Brema e di Friburgo, Adelphi, Milano 2002, pp. 49-50. Si tratta della seconda conferenza pronunciata a Brema nel 1949, intitolata L’impianto.

12) Sul rapporto di Heidegger col nazismo mi sia permesso rimandare al mio Mondo e senso. Heidegger e Celan, Cronopio, Napoli 1998.

13) J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation, Galilée, Paris 2002, pp. 18-19.

14) K. Marx F. Engels, L’ideologia tedesca, tr, it. di F. Codino, in K. Marx F. Engels, Opere, vol. V, 1854-1846, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 36.

15) Ibidem.

16) Ivi, pp. 36-37.

17) J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation, cit. p. 23.

18) K. Marx, Lineamenti fondamentali dell’economia politica, tr. it. di E. Grillo, la Nuova Italia, Firenze 1970, vol. II, p. 184.

19) J-L. Nancy, La création du monde ou la mondialisation, cit., p. 25.