numero 7
KAINOS
Ricerche

2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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E chi non beve con me! ...
La fame, la morte e il convivio.

di Vincenzo Cuomo

A Rita

Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte,
schiva della distruzione; anzi quella che sopporta la morte
e in essa si mantiene, questa è la vita dello spirito.
Hegel

Bevete sempre non morrete mai!
Rabelais


La fame di Gesù

Nella Quaestio n° 14 della sua Summa Teologica, Tommaso d’Aquino discute dei “difetti corporali assunti da Cristo nella natura umana”. L’articolo quattro della quaestio chiarisce in che modo Cristo avesse dovuto assumere tutti i “difetti fisici degli uomini”. Infatti, se la morte è, di tutti i mali, il più grave, e Cristo la patì, molto più dovette patire gli altri mali, «molto più doveva assumere tutti gli altri mali (ergo multo magis omnes defectus alios assumere debuit)»,(1) come Tommaso scrive. Tuttavia, Cristo assunse «tutti quei difetti che sono conseguenza del peccato comune a tutta la natura e che tuttavia non si oppongono alla pienezza della scienza e della grazia. Non era infatti conveniente che prendesse tutte le infermità umane», perché alcune ripugnano alla perfezione della scienza e della grazia «come l’ignoranza, l’inclinazione al peccato e la difficoltà a praticare il bene»(2). Infatti, ci sono miserie che non provengono dal peccato originale, assunto da Cristo con la presa in carico della natura umana, ma trovano la loro causa in inclinazioni “particolari” di alcuni uomini, oppure in una «alimentazione disordinata» (ex inordinatione victus) o ancora in «vizi di generazione» (ex defectu virtutis formativae). Niente di tutto questo fu in Cristo che «non commise mai alcun disordine nella sua vita» (nihil inordinatum in regimine suae vitae exercuit)(3). Ma i mali che si trovano universalmente in tutti gli uomini come effetto del peccato originale, Cristo li assunse tutti: «per esempio la morte, la fame e la sete»(4). Questi, infatti, sono «passioni naturali senza minorazione»(5) perché sono comuni a tutti gli uomini e non implicano alcuna minorazione di scienza e di grazia.

Cristo, quindi, patì la fame e la sete, così come patì innanzitutto la morte, ma non patì alcun disordine. Non fu soggetto ad alcun disordine morale, fisico e, cosa che qui ci interessa, ad alcun disordine alimentare. Patì la fame e la sete ma non gli eccessi del mangiare e del bere. Seguì, potremmo dire, una “dieta naturale” ordinata alla preservazione della sua vita biologica.

L’interessante di queste considerazioni risiede, a mio avviso, in due indicazioni. La prima connette la fame e la sete al difetto fondamentale della natura umana, vale a dire alla morte. La seconda, invece, separa nettamente la “natura comune” umana, che Cristo patì, assumendola, dalla “particolarità” del disordine e dell’errare dei singoli uomini, che egli non potette patire.

Eppure, proprio nella connessione di queste due notazioni il testo di Tommaso sembra implicitamente decostruirsi. Se, infatti, la fame ha a che fare con la morte – come cercherò di mostrare meglio dopo – e se la morte, per quanto “natura comune”, è sempre un evento singolarizzante (il «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»(6) gridato da Cristo morente al Padre lo attesta in maniera inoppugnabile) e radicalmente dis-ordinante, allora non si comprende perché il dis-ordine – comprensivo di tutti i disordini, compresi quelli alimentari – debba essere concepito come cadente fuori la natura mortale dell’uomo. Insomma, se Cristo assunse radicalmente la natura mortale dell’uomo, allora avrebbe dovuto assumere la radicale natura “singolarizzante”, vale a dire espropriante, dis-ordinante della morte, la quale, benché comune a tutti, è “attesa” sempre nel più completo abbandono della “comune essenza”. Non c’è nulla che es-propri in modo più radicale della morte(7). Per tale ragione, assumendo la morte, Cristo avrebbe dovuto assumere anche, a maggior ragione, la natura dis-ordinante, eretica ed erratica del dis-ordine che il peccato originale ha prodotto, secondo il racconto cristiano, nell’uomo, compreso, quindi, il dis-ordine alimentare. Ma non nel senso della crapula e della gozzoviglia, ma in quello dell’eccesso implicito nel mangiare e nel bere umani. Nel mangiare e nel bere l’uomo eccede sempre perché in queste attività egli non mette unicamente in campo la sua animalità. Se tra gli animali, specie tra quelli più vicini biologicamente all’uomo, non è affatto detto che non ci sia la percezione della morte, è ragionevole supporre che solo la specie umana ne abbia acquisito un’acuta consapevolezza. Allo stesso modo, se tra gli animali raramente, e a gradi minimi, il cibo assume caratteristiche che potremmo chiamare “cultuali”, è nella specie umana che il cibo, il mangiare e il bere, accanto alla loro funzione biologica, hanno da sempre anche (e soprattutto in alcuni casi) una funzione simbolica molto forte. E proprio in ragione della relazione tra il mangiare, il bere e la morte. L’uomo è anche quell’animale che mangia e beve “in eccesso” per proteggersi dalla morte, anche se tale “eccessività” nasconde una fondamentale ambivalenza, come cercherò di mostrare dopo, perché essa è simbolica e “materiale” ad un tempo. Per tale ragione il dis-ordine alimentare può essere agito contro il dis-ordine della morte – ogni qual volta assume il carattere dell’eccesso “simbolico” – ma può anche condurre alla morte, come nel caso della bulimia e dell’anoressia – se il simbolo del mangiare in comune è rifiutato e l’eccesso resta solo “materiale”.

In ogni caso, se Cristo, come scrive Tommaso, non patì disordini morali, fisici e/o alimentari, non patì allora fino in fondo la natura mortale dell’uomo? Vale a dire quella condizione per cui, morendo, sì cade sempre fuori dall’essenza comune? O forse, il grido di abbandono di Cristo sulla croce dovrebbe farci pensare ad un’ipotesi contraria? E che dire dell’ultima parola che, secondo il vangelo di Giovanni, Cristo avrebbe proferito prima di spirare: Ho sete?(8) E che dire dell’ultima cena?


Bevete e non morirete mai

«Chi venne prima, la sete o il bere?» «La sete, la sete! E chi avrebbe bevuto senza sete al tempo dell’innocenza?» «Il bere, dico io, perché privatio praesupponit habitum, la privazione presuppone l’abitudine […]» «Eppure noi siamo innocenti, ma non beviam che troppo senza sete» «Ed io, peccatore, senza sete mai. Che se la sete non è presente, bevo per la sete futura, prevenendola, capite. Io bevo per la sete avvenire, bevo eternamente. E ciò mi dà eternità di bere e bere per l’eternità» […] «Bevete sempre, non morrete mai»((9))

Rabelais, in qualche modo, mette in evidenza, nella relazione nutritiva con l’ambiente, la differenza fondamentale dell’uomo nei confronti degli animali. Anche se il suo discorso sembra prediligere il piano “materiale” dell’ingestione del cibo, il contesto delle grandi “abbuffate” del Gargantua e Pantagruele è sempre “conviviale”, nel senso che cercherò di chiarire dopo. E nella convivialità, nel mangiare insieme l’uomo può trovare la “misura” alimentare che non ha e che, invece, gli animali sembrano avere. Nell’uomo, infatti, il bere precede la sete e, potremmo dire, il mangiare precede la fame, come scrive Rabelais. L’uomo è, quindi, anche dal punto di vista alimentare, “senza misura”. Ma il bere e il mangiare “smisuratamente” trovano il loro senso ultimo nella messa tra parentesi della morte, nel suo infinito differimento. Ed è interessante che Rabelais metta esplicitamente in relazione il bere (e il mangiare) con la condizione di peccato, vale a dire con la condizione post-edenica. Solo che la smisuratezza del mangiare e del bere è portatrice di un’ambivalenza fondamentale: se da un lato è la strada del “differimento” della morte, dall’altro lato essa stessa può essere portatrice di morte. La “misura” in questo caso la istituisce il contesto simbolico del convivium, come cercherò di mostrare dopo.

In ogni caso, che il bere e il mangiare conviviali siano legati al differimento della morte e al godimento del “momento presente”, è un tema antico e trasversale in tutte le epoche e le letterature. Si pensi ad esempio alla lirica greca arcaica (ad Alceo, a Simonide)(10) o alla cena di Trimalcione nel Satirycon di Petronio, o ad alcune odi di Orazio o alla convivialità che contestualizza la narrazione nel Decameron di Boccaccio o, infine, alle splendide Quartine di Omar Khayyâm.

La cacciata dal paradiso terrestre, nel mito ebraico-cristiano, implica il nesso che si istituisce tra il mangiare e la conoscenza della morte, più che la conoscenza del “bene e del male”. Dio dice ad Adamo ed Eva: non mangiate altrimenti morirete! E la frase non deve essere intesa tanto nel senso di una minaccia di punizione, perché Adamo ed Eva non sono messi a morte, quanto nel senso che quell’atto di hybris e di ribellione all’ordine del giardino dell’Eden – ordine condiviso da Adamo, se si pone mente al fatto che egli dà i nomi a tutti gli animali e, in tale atto di nominazione, si insignorisce su di essi e li mette “a morte”(11), escludendoli dall’ordine simbolico – questo atto di disubbidienza all’ordine e al giudizio divino, ricaccia Adamo ed Eva in una condizione simile a quella degli animali, che hanno bisogno di mangiare e di fare sesso per sopravvivere, individualmente nel primo caso, come specie nel secondo. Ma tale condizione è solo simile a quella animale, perché ne differisce, anche se probabilmente solo per grado, in ragione della acuita consapevolezza della morte. L’uomo dovrà lavorare la terra per mangiare e la donna partorirà con dolore. Al di là del fatto che, ragionevolmente, dietro questo racconto possa nascondersi anche il passaggio epocale dai piccoli gruppi umani nomadi ai grandi gruppi sedentarizzati e dediti all’agricoltura, in tale condizione post-paradisiaca ciò che maggiormente risalta, si potrebbe dire, è l’irrompere del “decorso temporale” (il ciclo delle stagioni; il tempo del puerperio) tra il lavoro e il sesso da un lato e i loro frutti dall’altro. E, nell’ambito di tale irruzione del tempo, troviamo da subito un primato, e un dominio, dell’ad-venire sul presente. Dio utilizza il futuro quando dice ad Adamo ed Eva: morirete, lavorerai, partorirai. Tutto allora nella vita e nell’esistenza dell’uomo diventerà attesa, attesa del compimento, attesa degli eventi, attesa della fine, attesa della morte. Ogni attesa, ogni ad-venire umano sarà segnato dall’attesa fondamentale, quella della morte. Per tale ragione, le culture umane hanno elaborato complesse strategie di differimento di questa attesa, di “messa tra parentesi” della morte o di contrasto con essa o di vera e propria “assunzione” di essa. Ed il mangiare, comprensivo del bere, ha avuto nel corso della storia umana un ruolo fondamentale in tale prospettiva. Se Dio disse ad Adamo: se mangerete, morirete!, tramite Rabelais possiamo dire che l’uomo abbia potuto rispondere: se mangerete e berrete non morrete! E la vicinanza di tale frase con le parole pronunciate da Cristo nell’ultima cena: se mangerete e berrete [il mio corpo e il mio sangue, ergo il pane e il vino] vivrete in eterno, dovrebbe farci riflettere. Ma anche le parole di S. Paolo contenute nella I Lettera ai Corinzi sono indicative, anche se in senso diverso, dello stesso plesso simbolico, della stessa co-appartenenza simbolica tra il cibo, la morte e la vita. Difendendo la dottrina della “resurrezione dei corpi”, San Paolo scrive: «se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (I Corinzi, 15, 32), che cita a sua volta Isaia 22, 33 («Si mangi e si beva perché domani moriremo!»).


La fame e la percezione della morte

L’acuta consapevolezza della morte radicalizza nell’uomo il sentire, che è già “animale”, la connessione tra la fame e la morte. Se anche l’organismo vegetale, in quanto vivente, stabilisce necessariamente una relazione “trofica” elementare con l’ambiente circostante da cui trae il nutrimento, l’organismo animale, secondo i vari gradi di complessità, instaura relazioni nutritive con l’ambiente sempre più complesse e sempre più consapevoli. E la connessione tra l’esperienza trofica, il movimento – caratteristico degli animali (e presente solo a gradi molto bassi ed elementari nelle piante) – e la capacità di avere sensazioni e percezioni produce negli animali non solo un sapere elementare della realtà esterna (e della differenza tra l’interno e l’esterno del sé organico)(12), ma anche il sapere elementare della connessione tra l’aver fame e il morire. «Privato dell’alimento, l’essere animato non può sussistere» affermava Aristotele nel De anima(13) (B 4, 416 b 19-21). Si potrebbe affermare che la fame è la percezione di uno scompenso energetico con l’ambiente che l’organismo sente e che al suo grado massimo lo porterebbe alla morte. La fame è la percezione “naturale” della morte. Se l’organismo animale non mangia e beve, muore. La fame è l’unica esperienza che possiamo avere della “morte naturale”, intesa come fine/termine dello scambio di energia tra organismo e ambiente. È come fare un’esperienza il cui grado minimo è ancora confondibile con la vita e il cui grado massimo è la fine della possibilità dell’esperienza, essendo la morte (naturale). Del resto la nostra mortalità è in qualche modo connessa con il nostro dipendere dall’ambiente (e dagli altri) per trarre da esso il cibo e, dal cibo, l’energia vitale. Il patir la fame è un po’ come patire l’inizio del morire(14). Ne consegue, forse, che la sazietà è esperienza di “immortalità”? C’è una sorta di simmetria tra le due esperienze? Certo, gli “immortali” della mitologia di ogni epoca non dipendono dall’ambiente per sopravvivere. Con la sazietà, tuttavia, non si fa esperienza di immortalità, perché questa non è raggiungibile come grado massimo dell’esser-sazi. Vale a dire che, se il grado massimo del patire la fame è la morte, il grado massimo della sazietà non è l’immortalità, ma potrebbe anche, di nuovo, essere la morte. Con la sazietà noi, in quanto organismi animali, facciamo esperienza solo di una sospensione della nostra dipendenza dall’ambiente (e dagli altri).

La percezione acuita della morte che è caratteristica dell’uomo fa sì che egli abbia la capacità di coglierne appieno, al suo massimo grado, la sua natura singolarizzante. È ciò di cui parlavamo prima. La morte per l’individuo è ciò che non può essere vissuta al posto di un altro, come ci ha ricordato Heidegger. La morte è l’evento dis-ordinante e singolarizzante per eccellenza. Ed è ciò rispetto cui le culture umane sono sorte e da cui hanno tentato di difendersi. La morte non è mai quindi solo un evento “naturale” ma è sempre anche un evento culturale. Tuttavia, non bisogna fare l’errore di considerarla un evento unicamente culturale, come se l’uomo fosse un ente puramente e semplicemente “simbolico” e come se la sua animalità fosse stata “superata” completamente nella cultura e nel mondo del simbolo. In effetti, la morte è un’esperienza per noi radicalmente spaesante in quanto da un lato ci sottrae, come dicevamo, a qualsiasi “essenza comune”, dall’altro ci ricorda in modo inequivocabile la nostra comunanza con tutte le altre “creature” animali. La morte da un lato ci singolarizza, dall’altro ci riporta ad una condizione animale che credevamo perduta. Non c’è stato prima il paradiso terrestre e poi la storia umana segnata dal lavoro, dal sesso e dalla morte, ma c’è sempre e solo stata quest’ultima, essendo il paradiso solo il sogno dell’umanità.

La necessità di mangiare e bere per sopravvivere è ciò che ci accomuna agli animali e agli esseri viventi in generale. Ma l’uomo non mangia e beve semplicemente. Il mangiare e il bere sono attraversati da complesse strategie di senso. Non solo dalla domanda d’amore o dalle relazioni di potere(15), ma anche da un’ambivalenza fondamentale che cerca nel cibo l’impossibile, vale a dire la sospensione indefinita della morte mediante l’ingerimento del principio della vita. A tavola è come se fosse in gioco non la semplice sopravvivenza ma l’eternizzazione della vita stessa, attraverso la vittoria sulla morte. Entra in gioco qui una logica dell’ambivalenza per cui il cibo diviene lo strumento attraverso cui la carne è resa, per usare un’espressione di Camporesi, “impassibile”.


Il pane e il vino

Piero Camporesi, nel suo splendido studio-saggio La carne impassibile(16), ci descrive una cultura, quella europea che va dal medioevo al Settecento, in cui tra la dietetica, la farmaceutica, la profilassi medica e la religione c’è stato un continuo transito e un continuo richiamo concettuale. Da un lato il disfacimento dei corpi, accompagnato da odori nauseabondi, era segno dell’umano stato di peccato, dall’altro, in questo stesso putridume, in quello stesso decomporsi si riteneva operasse il principio della vita, il principium sanitatis. Tra l’alimentazione e i corpi si stabilisce una stretta corrispondenza. Gli stessi segni e gli stessi elementi che attestano la decomposizione dei corpi, ricompaiono, invertiti di senso, come elementi di rivitalizzazione. L’alimentazione può salvare o può dare la morte.

L’alimentazione – scrive Camporesi – appare intricata come un rebus, come una foresta densa di trappole o di riserve energetiche, di sostanze congruenti col corpo e i suoi sughi, vitali e produttrici di vita; oppure come un oscuro serbatoio di liquidi e sostanze che avvelenano, intossicano, inaridiscono, rinsecchiscono: cose impure, maligne, lutulenti, putrefattive che saturano di velenosi escrementi il sangue, inducendo poca vita e molta morte, chili e chili di morte((17)).

Tale cultura è, quindi, descritta nella sua forte ambivalenza. Nelle ricette e negli antidotari farmacologici si ritrovano gli stessi principi, le stesse sostanze, la stessa logica(18). In tale cultura è diffusissima la descrizione sognante del paradiso delle delizie e degli eletti come specchio rovesciato dell’umana condizione:

Nel paradiso degli eletti, come in negativo – scrive sempre Camporesi – per antifrasi e contrasto, si proiettano tutte le angosce, le paure, i dolori da cui erano attanagliati gli uomini sulla terra. Il mondo dei beati è lo specchio rovesciato delle miserie dell’umana condizione, in genere, e dello stress in cui la vita era impastato di stenti (per molti), di fatica (per i più), di terrori e di lacrime (per tutti). […] Il cielo viene sognato come immagine rovesciata, speculum inversum, della terra((19)).

Il paradiso delle delizie è quindi in genere descritto, secondo tale logica, come una condizione priva di processi vitali, priva di transiti e di trasformazione di flussi di energia. Come aveva scritto Sant’Anselmo d’Aosta – le cui Meditationes sono molto lette nel Seicento – lassù, nel paradiso dei beati:

nullus igitur ibi luctus, nullus flectus, nullus dolor, nullus timor. Non trististia, non discordia, non invidia, non tribulatio, non aeris mutatio vel corruptio, non suspicio, non ambitio, non adulatio, non detractio, non aegritudo, non senectus, non mors, non paupertas, non nox, non tenebrae, non emendi, vel bebendi, vel dormiendi ulla necessitas, fatigatio nulla((20)).

Solo profumi, perenne giovinezza, stasi temporale nel paradiso delle delizie. Oppure vi si trova una sorta di circolazione a “circuito chiuso” di flussi di “nobili umori” e dolcissimi liquidi che transitano, senza trasformarsi, dall’ambiente ai corpi dei beati, producendo solo delizie dei sensi(21). Nel paradiso delle delizie, così come è immaginato nei trattati teologici del Cinquecento e del Seicento, ma anche nella cultura popolare dell’epoca, non c’è alcun “rifiuto”, perché non c’è alcuna trasformazione metabolica, o meglio anabolico-catabolica, dell’energia né alcun processo entropico. Niente si degrada e tutto circola in un perfetto “circuito chiuso” che è anche l’immagine della stasi del tempo, contrabbandata per eternità. Citando il De remediis di Petrarca, Camporesi, a tal proposito, scrive:

Come stupirsi se in un mondo siffatto, velenoso, contaminato, maleodorante, escremenziale (lo sterco umano e di animali, maschi e femmine, entrava spesso nei medicamenti e nella cosmesi muliebre), devastato dalle piaghe apostemose, dalle scrofole, dalla lebbra, dalla peste, tormentato dai pidocchi, dai vermi, dalla tigna, dalle febbri malariche, dissenteriche, tifoidi, la gente sognava un luogo protetto, sano, salubre, dispensatore di lunga vita, di dolcezze, di piaceri, di voluttà e delizie dove i corpi fossero ‘belli e robusti e sani e netti’, un luogo dove il tempo si potesse fermare, dove non fosse ‘alcuna cosa vecchia o nova’, dove fossero sconosciuti ‘fervor et perexigui animantis inquietudo’ (Petrarca, prologo al De remediis), il tormento ansioso di ‘minutissima animalia’. Il tempo fermo, senza il nuovo e senza il vecchio, il tempo fuori del tempo, senza età, senza albe e tramonti, senza movimento di giorni e di ore((22)).

Lo studio di Camporesi mette, tuttavia, in evidenza come in questa stessa cultura, accanto a tale immaginario paradisiaco, la dietetica, la culinaria, la farmaceutica, in stretta e inestricabile reciproca contaminazione, trovavano paradossalmente nel principio della decomposizione il principio della vita. È come se, accanto al sogno paradisiaco, un altro sogno, molto più “materialistico” attraversasse quella cultura. Tale sogno, in cui viene in primo piano l’ambivalenza del cibo e del mangiare, passava attraverso la dieta, il cibo, la cucina e finiva nella farmaceutica. La cucina assume in tale cultura la stessa connotazione del laboratorio dell’alchimista o del farmacista:

Lo stesso spazio cucinario dove si trita, si pesta, si amalgama, si bollisce, si cuoce a bagno-maria, si scioglie, si spalma, si unge, s’impasta, si lievita, si fermenta, si setaccia, si torchia, si filtra; dove si manipolano le erbe, le carni, i sughi, le paste è insieme laboratorio della strega domestica, del mago, dell’alchimista, dell’apotecario. […] L’arte del ben condire (Bartolomeo Stefani) teorizzata dai grandi cuochi della cucina secentesca non appare sostanzialmente diversa dall’arte degli speziali di preparare unzioni, giulebbi, unguenti, manteche e cataplasmi, confetture e sciroppi, stillati e gelatine((23)).

Citando la ricetta dello “stillato ottimo” (un gallo farcito trasformato, traverso un lungo procedimento, in elisir) consigliato dall’esorcista-cuoco Florian Canale, Camporesi nota come

popolare simbolo di potenza e di vitalità sessuale, di “resurrezione della carne”, legato anche per questa associazione alla liturgia pasquale, il gallo, distrutto nella polpa e nelle ossa, tritato, macerato, distillato, trasformato dall’ebollizione e dal bagno-maria in nauseabonda poltiglia aromatica […] diventa il simbolo-pilota della magia chimico-culinaria, della teologia di cucina nella quale la liberazione dal Male s’intreccia con la restaurazione della sanità((24)).

In una cultura in cui ancora è centrale la credenza nella generatio spontanea e nella generatio ex putrido (bisognerà aspettare Franceso Redi e Lazzaro Spallanzani perché tale nozione scompaia dalla scienza e dal sapere), i processi di decomposizione assumono una forte ambivalenza. Sono concepiti come luoghi della morte e luoghi della rinascita. I vermi, in particolare il lombrico, sono i segni tangibili della decomposizione e della morte, ma, nello stesso tempo sono utilizzati, disseccati e polverizzati, come medicamenti miracolosi. Il lombrico era concepito ambivalentemente come essere immondo e diabolico, ma anche come rimedio farmaceutico atto a restituire la vita. È ancora viva in quest’epoca addirittura una “teologia del verme” che riprende un passo biblico (Salmi, 21, 7: Ego autem sum vermis sed non homo) e alcune riflessioni di S. Agostino che dimostra «come il verme non nasce da copula e quindi dal parto animale (come invece è dell’uomo), così la nascita di Cristo che ebbe per madre una vergine, è omologa a quella del verme, figlio della generazione spontanea»(25).

In effetti, per quanto detto – anche se Camporesi non lo mette in evidenza –, ci troviamo di fronte ad una doppia logica: da un lato abbiamo una logica oppositiva, in base alla quale lo stato paradisiaco è descritto come una sorta di non-vita, come una sorta di blocco dei transiti vitali e, quindi, dei transiti che producono la morte; in esso non si soffre la fame né la sete, la giovinezza è eterna, così come la salute, e il tempo non passa. Dall’altro lato, nell’ambito della culinaria e della farmacopea dell’epoca, troviamo operante una logica dell’ambivalenza, in base alla quale il transito del cibo e del farmakon può essere portatore di vita e di morte. Gli stessi rifiuti organici del corpo sono concepiti da un lato come segno dello stato di peccato e addirittura come presenza diabolica, dall’altro sono utilizzati come farmaci portentosi. Non c’è scarto organico che, cambiato di segno, non sia riutilizzato nella farmacopea come principium sanitatis. È il principio dell’homo homini salus: «l’uomo era un serbatoio di medicine preziose per gli altri uomini sia da morto sia, ancora vivo, per gli escrementi e i sottoprodotti del suo corpo»(26). Queste due logiche si intersecano spesso e si sovrappongono o trapassano l’una nell’altra quasi senza soluzione di continuità. Ad esempio nella teoria del “profumo di santità”, che non era affatto una metafora ma indicava la presenza di effluvi paradisiaci e miracolosi laddove avrebbero dovuto comparire i liquidi immondi della decomposizione. Il corpo della beata Beatrice pare diffondesse una fragranza talmente deliziosa che rapiva chiunque si accostasse al suo sepolcro. E quando il suo sepolcro viene aperto, «attraverso la mediazione del ‘sacro cadavero’ […] gli aromi celesti del paradiso filtrano sulla terra, addolciscono, inebriano, stordiscono […]. L’“odore di santità” non era una semplice metafora ma qualcosa di più profondo: una presenza concreta alimentata dalle allucinazioni collettive»(27).

Al fondo di tale logica dell’ambivalenza ritroviamo il principio secondo il quale nel cibo (comprendendo in esso anche le bevande) la morte diventa vita, la materia “morta” si trasforma in materia vivente, si trasmuta nella vita stessa. Proprio tale principio di ambivalenza è messo in luce da Jan Kott in un passo del suo Mangiare dio nel quale ricorda come il pane e il vino

incarnano gli opposti della natura e della cultura, della morte e della vita, e il loro superamento. La natura produce grano e vite, che devono però essere coltivati. Il chicco e il grappolo sono sostanze pure, ‘naturali’, ma per diventare farina e succo d’uva bisogna che prima vengano tagliati, spremuti da mani d’uomo e smembrati. Dopo di che farina e succo d’uva fermentano. Ma la fermentazione è putrefazione, e quindi decomposizione e morte naturale. È però anche un processo di coltivazione: farina e succo – materie morte – acquistano vita, si trasformano in cibo e bevanda((28)).

Come la decomposizione, la fermentazione, lo smembramento sono il segno della morte, così si trasformano in segno della resurrezione della vita. Troviamo qui operante un motivo antichissimo presente in tutti i culti agrari legati al ciclo delle stagioni, nel dionisismo ad esempio.

Il pane e il vino sono i simboli della rinascita attraverso la morte e sono anche, per quanto detto, i segni concreti di una speranza umana (troppo umana) tutta giocata, per così dire, nell’immanenza dei processi naturali, nell’immanenza del tempo e non legati all’immaginario paradisiaco della salvezza come stasi e assenza dei transiti vitali. Il pane e il vino sono i segni di tale speranza nella salvezza raggiungibile nell’immanenza e non nell’al di là della “resurrezione dei corpi”.

Ma c’è di più. Nella distinzione e nella complementarietà tra questi due alimenti “elementari”, il pane e il vino, è rintracciabile un’altra importante caratteristica. Il vino non è un alimento che “sfama” ma un alimento che dona ebbrezza, oblio e visioni (e in ogni caso “alterazione degli stati della coscienza”). Nella sua distinzione e complementarietà con il pane è forse possibile ritrovare la traccia di un’opposizione strutturale, quasi una sorta di “codice”: attraverso l’alimentazione gli uomini non cercano solo di “sfamarsi” ma cercano anche la visione, la visionarietà, non cercano solo la sopravvivenza biologica, ma anche l’ebbrezza che dona l’oblio e fa vedere. Non di solo pane vive l’uomo, potremmo dire, parafrasando il detto evangelico. Ma di pane e di vino. Basti ricordare come il bere vino fosse centrale nei culti dionisiaci e come il culmine delle feste dionisiache fosse la visione del dio(29). La relazione tra vino e visione, trasformata e nobilitata in relazione tra vino e verità, la ritroviamo, come è noto, in alcuni importanti testi filosofici(30).

Ma, in effetti, il vino è per antonomasia l’alimento che dà visioni, almeno nella cultura europea. Il discorso su tale tipologia di alimenti (quasi sempre bevande, ma non solo) deve poter comprendere un gran numero di sostanze eccitanti, stupefacenti, allucinogene, estatiche presenti in tutte le culture umane e che, in epoca premoderna trovano larghissimo uso e ampia giustificazione. Camporesi, nello studio prima citato, si sofferma a lungo anche su di esse, mostrando come il loro utilizzo fosse diffuso sia tra i ceti popolari che tra quelli borghesi ed aristocratici. È il caso dell’elleboro, droga emetico-visionaria che ebbe la massima diffusione in Europa, specie in quella controriformata, dalla seconda metà del Cinquecento a tutto il Seicento:

Le frustate dell’elleboro – egli scrive –, le accelerazioni e le decelerazioni che la veratrina imprimeva al sangue, al cervello, al sistema nervoso, i deliqui e le convulsioni terapeutiche, i salti nell’irreale, la perdita d’equilibrio […] possono aver avuto un qualche imponderabile rapporto – sia pur minimo e non accertabile – con i deliqui, le catalessi, i trilli e i voli di estatici, convulsionari visionari, con la generale atmosfera densa di vertigini, rapimenti, deliqui. Il caso di San Giuseppe da Copertino rappresenta il sintomo d’una diffusa nevrosi dai fondi oscuri e dalla eziologia complessa. È del tutto azzardato supporre che l’elleborismo, con l’alterazione dei valori cromatici, con i black-out artificiali abbia potuto impercettibilmente influire sopra una nuova sensibilità per i colori o influenzare la teoria e la pratica del chiaroscuro, il giuoco drammatico dei riverberi, delle luci e delle ombre?((31))

I “mediatori d’oblio”, come Camporesi chiama queste pozioni, questi unguenti, questi cibi, erano enormemente diffusi nell’Europa cinque-seicentesca: «la farmacopea popolare come quella aristocratica, l’erbario negromantico come quello di famiglia proiettano a getto continuo immagini letificanti di erbe stuporose e tranquillizzanti, narcotizzanti e visionarie»(32).

Il discorso dovrebbe allargarsi ad altre tradizioni culturali e ad altre epoche storiche, fino a mostrare come quello che ho chiamato “codice alimentare umano”, fondato sull’opposizione/complemento tra un cibo che “sfama” e un altro che “produce oblio e visioni”, sia universalmente diffuso. Non c’è religione arcaica che non comprenda, all’interno dei suoi riti, l’utilizzo di sostanze oblianti, visionarie e allucinogene(33).

Insomma, in tale “codice alimentare” troviamo il cibo che riproduce il corpo e il cibo che riproduce l’anima (attraverso il corpo); un cibo che “sazia” e un cibo che dà “oblio e visione”. Se il cibo che riproduce il corpo contiene il “principio della vita”, il cibo che riproduce l’anima, concedendo ad essa l’oblio e la visione, che principio contiene? Un principio “estatico” forse?(34)


Il Convivium e il simbolo dell’assente

Torniamo al mangiare, alla sua complessità culturale e al suo nesso con la mortalità. Per quanto fin qui detto, tutte le culture del cibo sono attraversate da complesse codificazioni simboliche(35) che legano gli alimenti non solo ai cicli delle stagioni, non solo alle feste e ai riti di passaggio, ma, al di sotto di tutto ciò, al comune problema della mortalità e, connesso a questo, al problema della vicinanza e della distanza tra i gruppi umani e i gruppi animali. Il dover mangiare per sopravvivere ricorda da sempre all’uomo la sua comunanza con gli animali; ma il poter mangiare per sopra-vivere, per distanziare e differire la morte, è ciò che le comunità umane hanno sperimentato come una delle strade possibili per differenziarsi dai semplici animali. In tal senso è fondamentale il nesso tra il mangiare (e il bere), in questa seconda accezione, e la convivialità. Tutto ciò che fino ad ora abbiamo detto non sarebbe possibile senza e al di fuori del con del convivium.

Al centro del con-vivium troviamo innanzitutto il godere in comune dei piaceri della tavola. Il piacere dei sensi legato ai sapori e ai profumi dei cibi e delle bevande non sarebbe comprensibile al di fuori della condizione conviviale. Il “gusto” è la facoltà di discernere tra i piaceri dei sensi e di giudicare “oggetti” (i cibi), riuscendo a provare piacere sensibile nell’assaporare le armonie e le equilibrate disarmonie dei cibi; ebbene, mai come in questo caso tale facoltà è il prodotto della convivialità e un integrale prodotto sociale(36). Il “gusto”, compreso quello “gastronomico”, sebbene sia legato al tempo lungo dell’educazione (al gusto, appunto) si caratterizza come la capacità di godere non solo della “complessità” delle qualità sensibili degli oggetti sui quali viene esercitato, ma, in particolare, di ciò che, in questi “oggetti”, sfugge alla regola, a ciò che si impone come eccezione, come nuance e “non so che”. Nel gusto, la lunghezza dell’educazione estetica e la sua socialità conviviale, si incontrano, perché la producono, con la capacità di godere dell’imprevisto(37).

Ma non è di un’estetica del cibo (se mai una tale estetica è effettivamente concepibile) che mi preme parlare, ma, in modo un po’ più articolato, del nesso tra convivialità e morte.

Si potrebbe affermare che il convivium ha sempre a che fare con la morte, nel senso che accade in qualche modo sempre nelle vicinanze del pericolo supremo o addirittura, come nella tradizione dei banchetti funebri, dinanzi al morto. Si potrebbe dire, à la Derrida, che se si mangia in “presenza” del morto, è l’essenza stessa del banchetto conviviale che ha a che fare con la morte.

Il non lasciarsi soli dinanzi alla morte ma anche dinanzi alla fame e alla sete, il farsi compagnia, creando un mondo umano di riti propiziatori è da sempre la finalità esplicita del banchetto conviviale. È come se chi non mangia e beve “in compagnia” non sia capace di far fronte alla morte, perché non è capace di sottrarsi al suo doppio potere di esproprio: da un lato la morte “singolarizza” il morente – separandolo dalla “natura comune” –, dall’altro – aspetto meno indagato – lo rigetta nella sua (mai risolta né risolvibile) “comunanza” con gli animali. L’ho sete di Gesù morente, che ricordavo prima, è quello di un uomo ricondotto alla sua “creaturalità”, alla sua “comunanza” con gli animali, che hanno sete e fame e che, nell’avere sete e fame sperimentano l’avvicinarsi della morte. Ecco allora che il “bere insieme” viene prima della sete, come diceva Rabelais, perché, in quanto bevuta conviviale, è un rimedio alla morte, è un rimedio perché la previene e la differisce. Bevete [insieme] e non morrete mai!

La forma del banchetto che, in questa prospettiva, più ci interessa è, ovviamente, quella del “banchetto funebre”. Come Ernesto De Martino mostra nel suo Morte e pianto rituale(38), il banchetto funebre, nelle antiche civiltà pre-agricole di tipo nomadico, ha al suo centro il “cibarsi” del morto; è un banchetto “antropofago”. La necrofagia rituale è una tecnica di elaborazione del cordoglio, attraverso l’ingestione del corpo del congiunto morto. Successivamente tale pratica subì delle trasformazioni, come quella in base alla quale, al posto del defunto morto, ci si cibava del nemico ucciso. Tuttavia, è solo con la comparsa della civiltà agricole e stanziali che durante il banchetto funebre il “morto” comincia ad essere “trasposto” in cibi non-umani, quali le carni animali e le derrate agricole, comprensive delle bevande e, in particolare, del vino (almeno per quanto riguarda le civiltà mediterranee). Scrive a tal proposito l’antropologo italiano:

In realtà il “bere” o “mangiare” i morti come designazione del banchetto funebre costituisce una sorta di lapsus che documenta il rischio di cui il banchetto funebre, con tutti i suoi significati ammessi e coscienti, rappresenta l’integrazione culturale. Nelle civiltà religiose del mondo antico non vi è traccia di necrofagia rituale, e il banchetto funebre vi appare soltanto nella forma trasposta del pasto di cibi carnei o vegetali. L’ordine cerealicolo dell’agricoltura con aratro ebbe ragione di tutte le forme di cannibalismo, e quindi anche della necrofagia rituale. […] Il nuovo ethos che bandì il cannibalismo rituale fu pur sempre tecnicamente impegnato a combattere le tentazioni della crisi, e il banchetto funebre, ancorché trasposto a cibi non umani, continuò ad assolvere il suo compito fondamentale di abbassare a strumento del valore gli irrisolventi conati della adialettica vitalità, e di ridischiudere alla riappropriazione ideale lo scacco della ingestione alimentare((39)).

Il passaggio dal banchetto funebre ai rituali conviviali più sofisticati ed evoluti dovrebbe essere certamente approfondito, tuttavia potremmo provvisoriamente affermare che il convivio è uno dei luoghi in cui gli umani hanno imparato a proteggersi dalla morte “assumendola” simbolicamente e, insieme, differendola attraverso l’ingestione del principio della salute. Si proteggono dalla morte come dal pericolo estremo. A tal proposito, secondo Benveniste, il termine greco spéndō, che significa “fare una libagione” e il suo derivato nominale spondē, che significa “offerta liquida”, hanno in origine il significato generale del «premunirsi contro un pericolo con l’aiuto degli dei»(40). «Lo scopo – scrive Benveniste – è sempre di proteggere chi è impegnato in un’impresa difficile»(41).

L’esperienza della fame è anche l’esperienza dell’inizio del processo del morire: nella fame l’individuo percepisce il rischio per la sua sopravvivenza, rischio in cui è gettato in quanto vivente. Anch’essa, a suo modo, “singolarizza”: la fame è sempre la “mia” fame, la sete è sempre la “mia” sete; non è possibile “trasferirla” ad altri e ad altro, metaforizzandola completamente. Forse non ci sono esperienze più produttive di metafore che quelle della morte (della morte degli altri, dell’attesa della morte propria) e della fame, ma, come il dolore, anche la fame e il morire sono non-trasportabili in quanto tali e non sono “riducibili” all’universo simbolico. Questo spiega ancora di più la vicinanza tra fame e morte. Entrambe, infatti, oltre che “singolarizzanti” sono “creaturizzanti”, nel senso che rigettano l’individuo fuori dal “paradiso culturale” del simbolico. Sia la morte che la fame accomunano gli uomini al destino creaturale degli animali.

Tuttavia, nel convivio, assieme al cibo, si assume anche il simbolo della fame e della morte. Ma si tratta di un simbolo che non “nega” la morte ma la “assume” e la “sopporta”. Il convivio riscatta gli umani dalla loro condizione puramente animale, ma non lo fa negando la dimensione “creaturale” del mangiare e del bere per vivere. Qui, per quanto fin ora detto, dovremmo distinguere una “forma generale” del banchetto conviviale dalla sua radicalizzazione nel “banchetto funebre”.

La “forma generale” del banchetto, quella, ad esempio, descritta da Bachtin a proposito di Rabelais(42), prevede innanzitutto che si mangi e si beva (nel pane e nel vino in particolare, come abbiamo già visto) il principio di vita che “vince la morte”. In secondo luogo, essa prevede l’assunzione, col cibo, del simbolo della morte, del simbolo della condizione stessa di mortalità, in cui l’uomo è gettato per il fatto stesso di dover mangiare e bere per sopravvivere (la condizione post-paradisiaca di “comunanza” con gli animali). Nel dar da mangiare e bere all’altro il convivio istituisce una condivisione simbolica della morte. La morte è “assunta” col cibo che si mangia in comune. Del resto, il “simbolo” ha a che fare sempre con una divisione (una parte che c’è e una che non c’è) e una con-divisione. Nel dar da mangiare e bere all’altro, tratto così tipico della convivialità, assieme al cibo e al vino, si assume anche il simbolo della morte, con-dividendolo.

C’è un’espressione tradizionale napoletana legata al “bere insieme” che, in traduzione italiana, suona pressappoco così: Qua si muore! Beviamo insieme! È un’espressione interessante per il discorso che sto tentando di portare avanti. Ha il senso dell’assunzione in proprio del comune destino di espropriazione che l’evento della morte comporta per il gruppo umano. La morte è sempre un si muore. Non si muore mai “in proprio” ma sempre nella massima espropriazione da se stessi(43). Ecco allora che la comunità dei con-beventi (e con-morenti) può corrispondere all’evento espropriante della morte solo elaborando un simbolo che la sopporti.

La temporalità del convivio, la temporalità che esso istituisce è, a tal proposito, di estremo interesse. Volendo schematizzare, potremmo dire che i “tempi” (le estasi temporali, per dirla con Heidegger) – il passato, il presente e il futuro – nel convivio si presentano e sono vissuti in una forma del tutto caratteristica e “obliante”: abbiamo, infatti, l’addio, che è la forma in cui appare il passato come ricordo; l’augurio, che è la forma dell’attesa; l’ospitalità che è la forma del momento presente. Ma l’addio, come forma del ricordo, pensa il passato sotto forma di un ad-venire che vince la morte. L’augurio, come forma dell’attesa, pensa l’ad-venire sotto forma di un passato libero da morte. L’ospitalità pensa il presente come il luogo in cui il passato è vissuto sotto forma di preparazione all’evento della morte.

Il momento presente, in cui si dà “ospitalità” alla morte, attraverso la sua “assunzione” simbolica e materiale ad un tempo, è tutto il tempo che resta. “O coppiere, servi del vino prima che la notte scompaia”, scrive Omar Khayyam in una delle sue più famose Quartine(44). Il tempo che resta è tutto il tempo che ci resta da vivere. Non c’è altro che questo tempo, ci dice Khayyam, viviamolo bevendo e conversando, ricordando quelli che “mancano” e augurando ai presenti un futuro libero dalla paura della morte. Il giorno è incerto, egli ci dice, sommamente incerto, c’è solo questa notte su cui possiamo contare, conviviamola.

Anche in Khayyam, quindi, troviamo la relazione tra il bere conviviale, l’oblio e la visione “consolatoria” e, ad un tempo, “vitale” delle cose del mondo. Nelle tre forme conviviali del tempo, nell’addio, nell’augurio e nell’ospitalità, l’oblio appare dominare e produrre le condizioni della “visione”. I “tempi” del convivio hanno in comune l’oblio non della morte, ma della paura della morte. E tale oblio è reso possibile dall’assunzione della morte attraverso l’assunzione del suo simbolo nel mangiare e bere in comune.

Nel “banchetto funebre”, questa “forma generale” del banchetto si radicalizza e si invera, in quanto in comune si assume non più genericamente il simbolo della morte, cioè il simbolo della possibilità dell’assenza della vita, bensì il simbolo dell’assente e della sua contingenza. Sappiamo che la morte è il dono paradossale che l’altro ci fa di una comunità finalmente libera dal principio sacrificale e dallo spirito di vendetta(45), tuttavia è nel banchetto funebre che, forse, questo dono può cominciare ad essere con-diviso. Infatti, ciò che in tale tipo di convivio è condiviso è il simbolo dell’assente, cioè il simbolo del non di quella “singolarità” che non è più al mondo. Il convito “sopporta” quella negatività, vale a dire quel poter non essere che è proprio dell’ente contingente(46) – se questo è finalmente concepito in una modalità non nichilista. Solo l’ente contingente, che può non essere, può non essere, cioè ha la “potenza” di eccedere l’essere, di eccedere il suo puro e semplice presupposto ontologico (l’organismo vivente “eccede” la dimensione preindividuale che lo condiziona; la singolarità esistente eccede le condizioni dell’esistenza). Ecco che il simbolo che sta per la potenza del non (e non per la negatività del nulla), è un simbolo che “sopporta” e non “occulta” la contingenza. E la sopportazione della morte passa proprio per la sua assunzione (nel doppio senso del termine, in quello legato all’atto del mangiare e del bere, e in quello legato all’atto dell’accettazione di un comune destino). Il simbolo dell’assente è il simbolo della contingenza – nel suo doppio significato di “mancanza di fondamento” e di “potenza” di non-essere. È simbolo del mancante, dell’assente all’appello. La sua “assunzione” accade con l’offerta del cibo e del vino, con lo scambio, con la circolazione del simbolo. Bere e mangiare il morto significano, allora, in senso proprio un dare da bere e da mangiare al morto, all’assente, “ospitandolo” senza condizioni. E l’introiezione del cibo (la sua assunzione biologica) avviene con l’assente, cui si offre cibo e bevande. Il con del convivium appare, così, nel suo significato più profondo e più superficiale ad un tempo, come un convivere con l’assente. Questo dato strutturale spiega anche perché l’offerta del cibo e del vino deve sempre risultare in “eccedenza” rispetto allo stretto fabbisogno dietetico dei commensali. Deve “eccedere” perché deve essere quella parte di cibo e di vino che non può essere consumata e introiettata, perché deve essere quella parte dell’altro, dell’altro che non c’è se non nel ricordo dei presenti. Nel con-vivium, allora, si mangia e si beve, ma solo perché si dà da mangiare e da bere a colui/colei che non c’è più.

Solo “assumendo”, col cibo e con il vino, il simbolo di colui/colei che manca, l’amico che non c’è più, l’amore perduto, i con-mangianti e con-beventi si liberano dalla paura della morte e accedono, per così dire, alla “visione del mondo”. Liberi dalla paura della morte, i con-beventi diventano capaci di vedere il mondo umano così com’è, liberi dall’illusione di vincere la morte, ma liberi anche dall’attesa angosciante di essa, quindi liberi dalla paura della morte. Se la vita dello spirito, come affermava Hegel, si caratterizza per la “sopportazione”, per l’assunzione della morte(47), forse non c’è luogo più spirituale e umano del convivio, in cui i con-beventi si liberano dai fantasmi della morte attraverso l’assunzione del simbolo dell’assente e della sua contingenza. Il qua si muore diviene allora, nel banchetto funebre, il qua vive il ricordo dell’assente, ma il ricordo dell’assente è anche accettazione della comune infondatezza e della comune potenza di non-essere, vale a dire è anche accettazione della propria contingenza e della sua potenza d’essere e non solo della sua mancanza d’essere. Il ben-mangiare diventa pratica del ben-vivere in quanto ben-morire(48).


Il faut bien manger, potremmo dire con Derrida, bisogna pur mangiare ma bisogna ben mangiare. «Bisogna ben mangiare – scrive Derrida – non vuol dire innanzitutto prendere e comprendere in sé, ma imparare e dare da mangiare, imparare-a-dare-da-mangiare-all’altro. Non si mangia mai da soli, ecco la regola del bisogna ben mangiare. È una legge dell’ospitalità infinita»(49). Per tale ragione, la bulimia e l’anoressia, almeno nelle loro forme canoniche(50), possono ragionevolmente essere interpretate come due forme simmetriche di rifiuto del simbolo dell’assente e dell’altro in generale. La bulimica mangia anche la porzione dell’altro, l’anoressica rifiuta anche la sua porzione. In entrambi i casi il simbolo, che prevede sempre l’ospitalità dell’assente – la cui “porzione” deve sempre “mancare” alle porzioni degli altri convitati, e, quindi, deve restare in “eccesso” – viene rifiutato. Entrambe mangiano senza l’altro.

Il “mangiare da soli” priva il mangiante del simbolo dell’assente, che nel convivio viene “assunto” dai con-mangianti e con-beventi. E l’assimilazione del simbolo dell’assente è, nel convivio, come abbiamo visto, la modalità in cui la morte è “sopportata” attraverso l’assunzione della contingenza dell’assente e, tramite esso, della contingenza dei presenti. Se si mangia da soli, allora, si rischia di morire senza l’altro e, quindi, di farsi vincere dalla morte senza mai incontrarla né guardarla in faccia.


È il tempo della giovinezza, bere è la cosa migliore.
Starsen con vino e volto spendente è la cosa migliore.
Questo effimero mondo è come rovine e deserto,
Viverci con mente fatta deserta dal vino è la cosa migliore.
((51))


Note con rimando automatico al testo

1 S. Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, testo latino dell’edizione leonina, vol. XXIV, L’incarnazione: b) difetti assunti e implicanze, (III, qq. 14-26), Casa editrice Adriano Salani, 1969, p. 38.

2 Ibidem.

3 Ibidem.

4 Ibidem.

5 Ibidem.

6 Matteo 27, 46 e Marco 15, 34.

7 Il rimando d’obbligo è a Martin Heidegger, Essere e Tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Milano, Longanesi, 1976. Ma si vedano poi, soprattutto, i seguenti due testi di Jacques Derrida: Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità” (trad. it. a cura di G. Berto, Milano, Bompiani, 2004) e Donare la morte (trad. it., di L. Berta, introduzione di S. Petrosino, postfazione di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 2002).

8 Giovanni 19, 28.

9 Rabelais, Gargatua e Pantagruele, trad. it., 2 voll., Edizioni Ferni, Ginevra 1976, vol. I, p. 24.

10 Sulla poesia simposiale greca e sulla stessa pratica del simposio vedi la chiara e competente sintesi di Massimo Vetta, Il simposio: la monodia e il giambo, in Lo spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza, vol. I, La produzione e la circolazione del testo, tomo I, La polis, Roma, Salerno editrice, 1992, pp. 177-218.

11 Vedi su tal questione J. Derrida, L’animale che dunque sono, edizione stabilita da Marie-Louise Mallet, introduzione all’edizione italiana di G. Dalmasso, tr. it. di M. Tannini, Milano, Jaca Book 2006.

12 Cfr, Ramon Turrò, La fame e l’origine della conoscenza, prefazione di M. de Unamuno, tr. it. di G. Pacuvio, Milano, Bompiani, 1949.

13 Aristotele, L’anima, B 4, 416 b 19-21.

14 Cfr. l’articolo di Livia Ravanelli, La dolce morte di papa Wojtyla, in Micromega, n° 7, 2007, che tratta della morte per “fame” del pontefice polacco.

15 Cfr. quanto sulla psicologia del mangiare, in stretto riferimento a Canetti, scrive Eleonora de Conciliis nel saggio Le metamorfosi della carne. Canetti e la psicologia del mangiare, nel presente numero di Kainos.

16 P. Camporesi, La carne impassibile. Salvezza e salute fra Medioevo e Controriforma, Milano, Il Saggiatore 1991, p. 177.

17 Ivi, p. 95.

18 «Gli antidotari, la farmacologia, le ricette, sono fonti preziose che nessuno ha pensato mai di esplorare per mettere a punto una più soddisfacente ricognizione dell’uomo dell’ancien régime. La dimensione farmacologica è invece una chiave non secondaria per capire il rapporto fra l’uomo e le sue ansie, le sue paure, le sue speranze, le sue disfunzioni corporali e le sue distonie mentali. Senza aggiungere poi che, la medicina antica essendo prevalentemente una dietetica, il controllo della salute passava attraverso una tassonomia terapeutica degli alimenti, classificati secondo la loro incidenza sopra le complessioni e gli umori. L’orto della sanità, il giardino delle erbe benefiche, nutrificanti, tonificanti, euforizzanti, era il grande serbatoio dello speziale come della donna di casa: spazio terapeutico-alimentare che faceva della cucina il prolungamento dell’area vegetale, laboratorio dell’uomo, della sua salute, del suo benessere fisiologico, dei suoi sogni e delle sue fantasie ossessive» (ivi, pp. 115-116).

19 Ivi, p. 177.

20 Ivi.

21 Bernheim e Stavridès, nel loro importante e noto studio comparatistico sul mito del paradiso, ricordano come, nell’affrontare i problemi relativi alla “resurrezione dei corpi”, che, specie nella teologia cattolica, è concepita come una sorta di reintegrazione dello stato paradisiaco, “san Tommaso si interessa parimenti al problema degli intestini; a priori sembra che i corpi risusciteranno senza tali organi per i seguenti motivi: non potrebbero essere pieni perché conterrebbero sostanze immonde, e neppure vuoti perché la natura aborre il vuoto. La risposta corretta è dunque che essi risusciteranno nella condizione delle altre membra: non saranno vuoti ma non saranno pieni di ignobili rifiuti, bensì di nobili umori” (Pierre-Antoine Bernheim – Guy Stavridès, Paradiso Paradisi, trad. it., Einaudi, Torino 1994, p. 82).

22 P. Camporesi, op. cit., p. 225.

23 Ivi, p. 195.

24 Ivi, p. 202.

25 Ivi, p. 317.

26 Ivi, p. 14.

27 Ivi, p. 11.

28 Jan Kott, Mangiare dio, tr. it. a cura di E. Capriolo, Milano, SE, 1990, p. 213.

29 Cfr. quanto scrive Giorgio Colli sul dionisismo arcaico nell’introduzione a La sapienza greca, I. Dioniso – Apollo – Eleusi – Orfeo – Museo – Iperborei – Enigma, Milano, Adelphi, 1977.

30 Nel Simposio platonico, innanzitutto, dove, secondo l’usanza greca, al termine della cena si beve e si discute di filosofia (dell’amore in questo caso) e in cui di Socrate viene detto (da Erissimaco) che è forte sia nel bere vino che nel fare discorsi.(. )Oppure nel dialogo filosofico In vino veritas di Kierkegaard in cui si afferma che “non si sarebbe potuto parlare che in vino e non si sarebbe potuta udire nessuna verità, se non quella che è in vino, quando il vino è una difesa della verità e la verità una difesa del vino” (S. Kierkegaard, In vino veritas, tr. it. a cura di I. Vecchiotti, Bari, Laterza 1983, p. 30).

31 Piero Camporesi, op. cit., p. 141-142.

32 Ivi, p. 221.

33 Cfr. per quel che riguarda il cristianesimo il recente G. Camilla, F. Gosso, Allucinogeni e cristianesimo. Evidenze nell’arte sacra, ed. Colibrì, ??? 2007; e C.A.P. Ruck, B. D. Staples, C. Heinrich, The Apples of Apollo: Pagan and Christian Mysteries of Eucharist, Durham, North Caroline, Caroline Academic Press, 2001.

34 Riflettendo su alcune poesie di Hölderlin, in cui il tema del vino e del pane sono centrali, Heidegger ha messo in evidenza come l’ebbrezza che dona il vino non debba essere confusa con l’ubriacatura. Commentando un passo del poeta, in cui il vino viene chiamato “luce scura” (ma mi porga alcuno, colmo di luce scura, il calice odoroso( )Es reiche aber, des dunkeln Lichtes voll, mir einer den duftenden Becher), Heidegger scrive: «la luce scura del vino non fa perdere il senno, ma lo eleva, oltre a quella mera parvenza di chiarezza che è propria anche di tutto quanto può essere piattamente calcolato, nell’altezza e nella vicinanza di ciò che è più alto. Così il calice colmo non ha neppure l’effetto di stordire. Non deve ubriacare, ma rendere ebbri. L’ebbrezza è quella disposizione (Stimmung) nella quale viene percepita unicamente la voce (Stimme) di ciò che determina tale disposizione, affinché coloro che sono così disposti siano decisi per l’estremamente altro da sé. […] L’ebbrezza confonde tanto poco il “senno” da apportare invece, essa soltanto, la lucidità per ciò che è alto, facendo pensare a questo» (M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di F.W. Von Herrmann, ed. it. a cura di Leonardo Amoroso, Milano, Adelphi 1988, p. 143). Questa ebbrezza è legata alla capacità dei poeti, come recitano i versi di Hölderlin, di stare “svegli la notte” («Ma pure ella deve [la luna] – perché durando l’attesa, perché nella tenebra un che di fermo ci resti – darci l’oblio, darci la sacra ebbrezza, darci il flutto del verbo, che come gli amanti sia senza sonno, e più colma coppa e più audace vita e anche memoria sacra, da stare svegli la notte….», in Pane e vino, trad. it. di G. Vigolo in F. Hölderlin, Poesie, Torino, Einaudi, 1976, p. 102). Non è insonnia quella dei poeti, scrive Heidegger, ma un «peculiare vegliare che, non essendo insonnia, non dipende dal sonno, ma veglia sulla notte e la protegge» perché, per Hölderlin, la notte non è una mancanza di giorno ma «la madre del giorno» (M. Heidegger, Op. cit., p. 133 e p. 132). Nel suo Nietzsche Heidegger aveva scritto che «l’ebbrezza come stato sentimentale fa saltare […] la soggettività del soggetto» (M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi 1994, p. 129).

35 Cfr. la voce Alimentazione redatta da Renée Valeri per l’Enciclopedia Einaudi (vol. I., Torino, Einaudi, 1977, pp. 344-361.

36 Sull’estetica del cibo cfr. Nicola Perullo, Per un’estetica del cibo, Aesthetica Preprint, Palermo 2006. Che il cibo e il mangiare possano diventare “oggetti estetici” si scontra, tuttavia, con la mancanza, in essi, della dimensione del “contemplare disinteressato”. Per tale ragione ritengo che un’estetica del cibo possa tutt’al più essere pensata come estetica “impura”.

37 Cfr. su tale concetto il classico Charles Louis Montesquieu, Sul gusto, tr. it. di C. Tafani, pref. di G. Morpurgo-Tagliabue, Genova, Marietti 1990. 

38 E. De Martino, Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, introduzione di C. Gallini, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.

39 Ivi, pp. 206-207.

40 E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, vol. II. Potere, diritto, religione, edizione italiana a cura di M. Liborio, Torino, Einaudi, 1976, p. 444.

41 Ibidem.

42 Vedi Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, tr. it. di M. Romano, Torino, Einaudi, 1979, in particolare il capitolo quarto, pp. 304-331.

43 Vedi Jacques Derrida, Aporie, cit.

44 Omar Khayyam, Quartine, trad. it. a cura di H. Hajdar, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1997, p. 101 (quartina n° 184).

45 Vedi su tale questione B. Moroncini, La comunità e l’invenzione, Napoli, Cronopio, 2001, in particolare la seconda parte.

46 Mi si permetta il rimando, su tale concetto di “contingenza” al mio saggio, Crudeltà ed errore in Antonin Artaud, in L’esperienza limite. L’esperienza del limite, a cura di V. Cuomo, Roma, Aracne editrice 2007, pp. 43-66.

47 G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di E. De Negri, Firenze, La Nuova Italia, 1974, vol. I, p. 26.

48 Che il convivio sia connesso alla morte è un dato che possiamo evincere anche dalla sua “patologia”, legata al mangiare “da soli”. Nel suo libro incompiuto sulle “apocalissi culturali”( )(E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di C. Gallini, introduzione di C. Gallini e M. Massenzio, Torino, Einaudi 2002), pur mettendo in evidenza solo il legame tra il mangiare insieme (in particolare il pane) e la memoria della comunità umana (la scoperta dell’agricoltura e la domesticazione degli animali), De Martino, in un appunto, stigmatizza l’uso contemporaneo del “mangiare da soli” al self-service: «Se è una minaccia la fame, è una minaccia anche il mangiare da soli: ché il pane come cibo che nutre si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune […]. Oggi è più che giusto volgere le mani a coloro che hanno perso il pane cibo del corpo e ai milioni che patiscono la fame: ma, d’altra parte, attenzione all’imbanditissimo self-service delle nostre metropoli, dove si corre il rischio di ‘perdere il pane’ in un altro senso più radicale ancora, e proprio perché malgrado la folla di individui caoticamente masticanti e deglutenti, non c’è banchetto né commensale […]» (Ivi, pp. 615-616). In un suo fortunato libro sull’anoressia, Massimo Recalcati, qualche anno fa scriveva, quasi a continuare l’appunto di De Martino, «Non si mangia più con l’Altro, ma il Convivio si dissolve in un consumo solitario e senza parole. La ‘morte del Convivio’ riassume efficacemente l’esito secolarizzante di questa frattura nella logica della commensalità: la tavola dell’Altro, nella sua funzione simbolica essenziale che è quella di offrire un posto al soggetto in quanto appartenente a una comunità, viene disertata, sconvolta, offesa da un discorso alimentare che rifiuta la logica della commensalità, dello stare alla tavola dell’Altro. In questo senso anoressia e bulimia (e più in generale i cosiddetti disturbi dell’alimentazione) sono fenomeni che devono essere inscritti all’interno di questa erosione progressiva del Convivio, sono espressioni del tramonto nichilistico del Convivio»( )(M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Milano, Bruno Mondadori, seconda edizione, 2007, pp. 304-305). Sulla stessa linea problematica, ma partendo da altri riferimenti teorici, anche Jean Baudrillard, soffermandosi sul fenomeno dell’obesità così diffusa negli USA, scrive: «Il corpo, perdendo i suoi tratti specifici, prosegue l’espansione monotona dei suoi tessuti. Non è più né individuato né sessuato, non è che un’estensione indefinita: metastatica. Franz von Baader qualifica la metastasi, assimilata all’estasi – nel suo saggio Über den Begriff der Ekstasis als Metastasis – come anticipazione della morte, dell’al di là della propria fine, in seno alla vita stessa. E certo c’è qualcosa di questo genere nell’obeso, di cui si può pensare che da vivo abbia inghiottito il proprio corpo morto, ne risulta un troppo di corpo, e improvvisamente il corpo appare come di troppo. È l’ingorgo di un organo inutile» (J. Baudrillard, Le strategie fatali, trad. it. di S. D’Alessandro, Milano, SE, 2007, pp. 32-33). L’obeso, secondo Baudrillard, è come se mangiasse il suo corpo morto, incapace di assimilare, col cibo, il simbolo dell’assente. È incapace di farlo in quanto è incapace di con-vivere e, quindi, di con-morire.

49 Jacques Derrida, Bisogna ben mangiare, trad. it. a cura di T. Ariemma, in Kainos. Rivista on line di critica filosofica, n° 7, sezione Emergenze (www.kainos.it).

50 Vedi Massimo Recalcati, L’ultima cena…, op. cit.

51 Omar Khayyam, Quartine, trad. it. a cura di A. Bausani, Torino, Einaudi, 2001, p. 92 (quartina n° 259).