numero 7
KAINOS
Ricerche
2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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Iconofagia. Da Deleuze a Burroughs

di Tommaso Ariemma

   

    1. Qualcosa di oscuro nell’anima

Suggestive quanto complesse sono le pagine che Deleuze dedica a Leibniz nel suo testo La piega, così intricate e dense da rendere quasi irriconoscibile la sua filosofia. Tuttavia diversi interventi che Deleuze opera sul corpo degli scritti leibniziani sono per noi preziosi per avvicinarci a quanto di oscuro vi è nell’anima. Di particolare interesse ci sembra la deduzione morale che Deleuze rintraccia nell’esigenza, per Leibniz, che l’anima abbia un corpo. Io devo avere un corpo perché c’è qualcosa di oscuro in me: è questo per Deleuze il primo argomento circa la deduzione morale:

Io devo avere un corpo: è una necessità morale, un’«esigenza». E, per prima cosa, devo avere un corpo perché c’è qualcosa di oscuro in me. Già questo primo argomento mostra la grande originalità di Leibniz. Egli non dice che solo il corpo spiega quanto c’è d’oscuro nello spirito. Al contrario, lo spirito è oscuro, il fondo dello spirito è scuro, ed è proprio questa natura scura che spiega ed esige il corpo. […] Non c’è dell’oscuro in noi perché abbiamo un corpo, ma noi dobbiamo avere un corpo perché c’è dell’oscuro in noi: all’induzione fisica cartesiana, Leibniz sostituisce una deduzione morale del corpo.(1)

Tuttavia ci pare che, nel momento in cui viene individuata, la deduzione morale venga subito abbandonata per una causalità inversa: l’anima oscura spiega il corpo, non il contrario(2). Dov’è la moralità del corpo? Perché è bene, è giusto, è meglio avere un corpo? Deleuze non ci pare porre in questi termini la questione, optando per un discorso causale, senza che intervenga il minimo discorso sulla bontà dell’avere un corpo. In fondo, Deleuze non può avanzare una deduzione morale perché aggira il problema dell’appetitus in Leibniz. È curioso: una monografia su Leibniz, in cui, in maniera puntuale e precisa, ogni concetto viene descritto e quasi riscritto, la parola “appetito”, concetto fondamentale in Leibniz, vi compare una sola volta, all’interno di una sola proposizione, velocissima(3). Da buoni investigatori, ormai sulle tracce di qualcosa che sembra mancare, che sembra mancato, si è certi di essere sul luogo in cui in cui si è consumata più di una omissione.

Nella pagina (dell’edizione italiana) in cui accenna all’appetito, Deleuze fa un rapido riferimento alla fame, ma il modo in cui questa viene introdotta nel testo, non solo la separa dall’appetito, ma fa apparire la fame un mero esempio. Scrive Deleuze:

Per quanto brusca sia la bastonata al cane che mangia, questi avrà comunque avuto tante piccole percezioni del mio arrivo furtivo, del mio odore ostile, dell’alzarsi del bastone – tutte percezioni soggiacenti alla conversione del piacere in dolore. In che modo la fame potrebbe seguire la sazietà se tante piccole fami elementari (di sali, di zuccheri, di grassi, ecc.) non insorgessero a ritmi alternati e avvertiti?(4)

Ci sembra pertanto opportuno recuperare ciò che in questa pagina è stato espunto, rintracciandolo nei corsi preparatori a La piega che Deleuze ha dedicato a Leibniz. Come afferma nella seduta del 29/04/1980:

[…] secondo Leibniz, l’anima ha due facoltà fondamentali: l’appercezione cosciente che è composta da piccole percezioni incoscienti, e ciò che chiama l’appetizione, l’appetito, il desiderio. E noi saremmo fatti di desiderio e di percezioni. Ora, l’appetizione è l’appetito cosciente. Se le percezioni globali sono fatte di un’infinità di piccole percezioni, le appetizioni o grossi appetiti sono fatti di un’infinità di piccole appetizioni. Come potete vedere le appetizioni sono i vettori corrispondenti delle piccole percezioni, diventa un inconscio molto strano. La goccia del mare alla quale corrisponde la goccia d’acqua, alla quale corrisponde una piccola appetizione presso colui che ha sete. E quando io dico: “Oddio, ho sete, ho sete”, che cosa faccio? Esprimo grossolanamente un risultato globale delle mille e mille piccole percezioni che mi attraversano, e delle mille e mille appetizioni che mi attraversano. Che cosa vuol dire? All’inizio del ventesimo secolo, un grande biologo spagnolo caduto nell’oblio, si chiamava Turrò, fece un libro col titolo in francese: “Les origines de la connaissance” (1914 -Le origini della conoscenza) ed è un libro straordinario. Turrò diceva che quando diciamo “io ho fame” – aveva una formazione puramente biologica –, e ci diciamo che è Leibniz che si è svegliato, è un vero risultato globale, ciò che egli chiama una sensazione globale. Impiega i suoi concetti: la fame globale e le piccole fami specifiche. Dice che la fame come fenomeno globale è un effetto statistico. Di cosa è composta la fame come sostanza globale? Di mille piccole fami: fame di sali, fame di sostanze proteiche, fame di grassi, fame di sali minerali, ecc… Quando dico “io ho fame”, io faccio alla lettera, dice Turrò, l’integrale o l’integrazione di queste mille piccole fami specifiche. Le piccole differenziali sono le differenziali della percezione cosciente, la percezione cosciente è l’integrazione delle piccole percezioni. Molto bene. Vedete bene che le mille piccole appetizioni sono le mille fami specifiche. E Turrò continua, perché c’è tuttavia qualcosa di strano a livello animale: come fa l’animale a sapere di cosa ha bisogno? L’animale vede delle qualità sensibili, ci si getta sopra e le mangia, tutti mangiamo delle qualità sensibili. La mucca mangia del verde. Essa non mangia dell’erba, e tuttavia non mangia un verde qualsiasi poiché riconosce il verde dell’erba e non mangia soltanto il verde dell’erba. Il carnivoro non mangia delle proteine, mangia la cosa che ha visto, non vede delle proteine. Il problema dell’istinto, al livello più semplice, è: come si spiega il fatto che le bestie mangiano pressappoco ciò che gli conviene? In effetti, le bestie per il loro pasto mangiano la quantità di grassi, la quantità di sale, la quantità di proteine necessaria all’equilibrio del loro “ambiente” (milieu) interiore. E il loro ambiente interiore che cos’è? L’ambiente interiore è il luogo di tutte le piccole percezioni e le piccole appetizioni. (5)

Il lungo brano riportato pone, rispetto al passo de La piega, diversi problemi: in primo luogo, Deleuze collega, come fa Leibniz, l’appetizione al desiderio. Ribadisce, seguendo Leibniz e coerentemente con tutta la sua filosofia, che noi siamo fatti di percezioni e di desiderio, desiderio che investe le percezioni e le coordina(6). Ne La piega scompare ogni riferimento al desiderio, e, come abbiamo già detto, non dedica all’appetizione che un solo rigo. Nel brano della sua lezione, inoltre, collega l’appetizione alla fame, esplicitamente. E fa un importante riferimento al biologo spagnolo Turrò, che scompare nel testo dedicato a Leibniz. Traccia di quanto il riferimento alla fame e alla nutrizione sia comunque implicito e decisivo nell’espressione dell’anima, è il sottolineare di Deleuze, ne La piega, “il brulichio digestivo delle piccole percezioni”.(7)

L’anima ha appetiti, cioè delle inquietudini. Ha la necessità di passare da una piccola percezione all’altra - in questo consiste l’appetizione - ma sopratutto, e qui fa il suo ingresso il corpo, queste piccole percezioni devono essere trattenute, assorbite, tenute insieme, nel movimento dell’appetizione. L’anima fa l’integrale di queste piccole appetizioni che il corpo sembra soddisfare.

Il corpo è buono, la sua esistenza è buona, perché è capace di soddisfare e di sviluppare gli appetiti, i desideri, dell’anima. Essi non si chiariscono che mediante il corpo, poiché attraverso il corpo l’anima si rappresenta il mondo: "così si conoscono i satelliti di Saturno e di Giove solo per il movimento che si fa nei nostri occhi", scrive Leibniz ad Arnauld(8).

Un’anima senza corpo sarebbe un’anima incapace di avere appetiti e dei desideri nitidi e distinti. Desidero quella donna, perché il corpo ha permesso che la sua immagine mi si chiarisse, nel fondo oscuro dell’anima, assorbendo odori, rilasci ormonali, percorrendo con gli occhi le sue forme, toccandole. Il risultato di questo pasto oscuro è il tingersi progressivo nell’anima di un’immagine. Deleuze dice che l’anima leibniziana è tappezzata di dipinti trompe-l’oeil e nello stesso tempo che è fatta come una camera oscura(9). Allora, quando si tratterà di sviluppare la proposizione “io devo avere un corpo, perchè c’è qualcosa di oscuro in me”, secondo una deduzione morale, bisognerà affermare che vi è un’esigenza morale del corpo nella stessa misura in cui davanti a una tela vi è l’esigenza morale del pittore.

2. Avere o fare l’immagine

L’oscurità dell’anima ha aperto la strada, implicitamente, seguendo il non detto di Deleuze, a una esigenza morale dell’immagine. Tuttavia, in relazione al problema della sua realtà, l’esigenza dell’immagine diviene subito un problema complesso. Pur necessitando di tutte le piccole percezioni e di tutte le piccole appetizioni, essa non è la somma di queste, ma l’integrale, una sorta d’uno, ovvero qualcosa di più di un semplice composto.

Non essendo raggiunta per l’associazione atomistica di tutti i piccoli elementi consumati attraverso il corpo, si direbbe che a fare l’immagine sia stata l’anima. Una soluzione di comodo, questa. Semplificante e degna del romanticismo più sfrenato. In verità, è indecidibile se l’anima abbia fatto l’immagine o abbia colto anch’essa attraverso il corpo. L’immagine le è venuta, potremmo dire, esprimendo con questa proposizione, dal senso ambiguo, l’indecidibilità tra l’avere e il fare. Tale ambiguità permea già il De anima (III, 3) di Aristotele, fino al celebre dilemma di Samuel Beckett che conclude le due versioni di un suo celebre testo (la cui seconda versione non a caso intitolata L’image ) ora con l’espressione c’est fait j’ai fait l’image (è fatta ho fatto l’immagine), ora con c’est fait j’ai eu l’image (è fatta ho avuto l’immagine)(10).

Ad un’analisi genetica, però, l’indecidibilità pare sbilanciarsi dal lato dell’avere, perché non vi è desiderio o appetito, ciò che farebbe l’immagine nell’anima, senza a sua volta un’immagine che lo investa. Ciò che chiamiamo immaginazione esprimerebbe proprio l’inquietudine dell’anima che oscilla tra l’avere e il fare l’immagine.

Parafrasando Aristotele, non vi è desiderio privo dell’immagine che lo renda possibile. Nella sua monografia su Bacon, Deleuze accenna a qualcosa di singolare che accade al pittore, ovvero al fatto che egli non trova mai dinanzi a sé una tela bianca:

È un errore credere che il pittore si trovi dinanzi a una superficie bianca. All’origine della credenza nella figurazione c’è questo errore: se infatti il pittore fosse dinanzi a una superficie bianca, potrebbe riprodurvi un oggetto esterno, che quindi fungerebbe da modello. Ma non è così. Il pittore ha molte cose nella testa, intorno a sé o nell’atelier.(11)

A questo punto, chiamiamo iconofagia il processo attraverso il quale, mediante il corpo, non solo assumiamo in modo oscuro dati sensibili, ma altrettante immagini. Come ha sottolineato Deleuze in Logica del senso(12), il corpo non fa che mangiare, ma c’è un momento, una sorta di beatitudine, in cui il corpo perde la sua profondità e raggiunge la superficie, fino a mangiare ciò che si direbbe incommestibile. In questo caso, proprio l’immagine.

3. Baci e morsi

Si può obiettare che ciò che qui si sta avanzando sia un consumo simbolico, che tutto ciò che abbiamo detto è metaforico. Invece, non si sta parlando di un consumo fittizio, ma del consumo reale del simbolico. Senza questo consumo, senza la dinamica dell’iconofagia, non si potrebbe parlare, come oggi si fa, di un consumo delle immagini(13). È il consumo a cui siamo condannati, a cui anche l’anoressica, che sembra non mangiar nulla, non può sottrarsi.

C’è un consumo reale dell’immagine, nei confronti della quale si può provare nausea, piacere, ossessione. La fame dell’immagine, lungi dunque dall’essere qualcosa di metaforico, investe aspetti fondamentali della nostra esistenza. Come quello dell’amore, dove non si può non cibarsi di immagini.
Quanto ho detto della fame si può facilmente estendere al bisogno d’amore”(14): sono parole di Valéry, mentre tenta il paragone classico, ma mai opportunamente tematizzato, tra il mangiare e l’amare. Si ha un bel paragonare, come fa Sartre(15), il desiderio a un divorare l’altro, senza notare che esso è realmente un cibarsi dell’altro, dell’altro in effigie, ovvero in quella virtualità irriducibile, di cui pure si costituisce l’esperienza del mondo.

In uno dei suo ultimi racconti, Italo Calvino, forse perché agisce già nella sfera dell’immaginario, sembra prendere sul serio questo consumo (del) simbolico, proprio a proposito dell’esperienza amorosa:

Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia mi aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo di inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo di ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto amoroso e annulla i confini tra i nostri corpi.(16)

Ma è nella Pentesilea di Kleist che il nodo mangiare/amare viene ad esplicarsi per via negativa: Pentesilea, l’amazzone protagonista dell’opera, che uccide, sbranandolo, Achille, confonde il consumo dell’immagine dell’amato con il consumo del suo corpo organico. In questo consiste la sua follia: nell’aver scambiato la presenza corporea con la realtà dell’immagine. È ciò che si evince dal suo famoso monologo:

Amore, orrore [letteralmente: baci, morsi] fa rima, e chi ama di cuore può scambiare l’uno con l’altro. […] Quante, attaccate al collo dell’amante, ripetono di continuo queste parole: che l’amano, oh, l’amano così tanto, che per amore potrebbero anche mangiarlo.(17)

4. Il morso dell’immagine. A partire da Burroughs

Non vi è distinzione reale tra il consumo dell’immagine, ovvero il consumo spettrale, e il consumo fisiologico, ma distinzione modale: l’assunzione dell’immagine non passerebbe semplicemente per la bocca o per i sensi, intesi organicisticamente. Non passerebbe neanche in modo esclusivo per la visione, perché, come nota Aristotele (cfr. De anima 424 a5-20), c’è immagine anche ad occhi chiusi: la visione non le è essenziale. A far precipitare il consumo dell’immagine nel metaforico è certo la centralità data alla bocca, al consumo orale. Ma, come giustamente fa notare Derrida:

L’introiezione o l’incorporazione dell’altro, si sa, ha tante risorse, riusi e sotterfugi… Essa può inventare tanti orifizi, al di là di quelli di cui si crede di disporre naturalmente, come per esempio la bocca.(18)

È stato lo scrittore William S. Burroughs a svincolarsi da questo primato, soprattutto nella sua opera più celebre, non a caso intitolata Naked Lunch – Pasto Nudo, parlando di organi che diventano bocche, a cominciare dalla pelle, dagli occhi. Scrive:

Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza avanti per mordere con denti trasparenti…(19) Nella sua spietata analisi del corpo del drogato, egli non manca di parlare di una fame di immagini, più accentuata nel suo corpo(20). Un corpo, quello narrato da Burroughs, intrinsecamente famelico, del quale non manca di elaborare un’algebra del Bisogno e del Nutrimento, svincolata da ogni riduzione organicistica e che, ovviamente, permette di pensare la distinzione modale del consumo dell’immagine.

(21) Tale distinzione prevede, inoltre, la non assimilazione dell’immagine rispetto agli altri cibi. Il consumo dell’immagine sarebbe il consumo di ciò che, anche se introiettato, resterebbe indigeribile.

Resterebbe, semplicemente. Rientrerebbe nella sfera di ciò che Derrida ha chiamato il morso, o il boccone, come qualcosa che, benché mangiato, resta nella bocca, e il suo consumo sarebbe l’impossibile consumo dell’eterogeneo, un consumo non assimilante. Piuttosto, un consumo costituente, un consumo che non mira al mantenimento di un sé, ma precisamente ad introdurre dell’altro in sé, secondo un’estensione non omogenea dell’anima.


Note con rimando automatico al testo

1G. Deleuze, La piega, a cura di D. Tarizzo, Torino, Einaudi 2004, p. 139.

2Cfr. ibidem, p. 140.

3Ibidem, p. 142.

4Ivi.

5Lezione del 29/04/1980, disponibile su www.webdeleuze.com ( traduzione lievemente modificata)

6Ivi.

7G. Deleuze, La piega, cit., p. 151.

8Cfr. R. Fabbrichesi Leo, Leibniz: monade e armonia, Cuem, Milano 1998.

9Ibidem, p. 46.

10Cfr. B. Clément, Avere o fare l’immagine?, in AA. VV., Ai limiti dell’immagine, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 150-159.

11G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 1995, p. 157.

12Cfr. G. Deleuze, Logica del senso, trad. it. di S. De Michelis, Feltrinelli, Milano 2005, p. 165.

13Cfr. F. Carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, Milano 2006.

14P. Valéry, Scritti sull’arte, trad. it. di V. Lamarque, Guanda, Milano 1984, p. 155.

15Cfr. J. -P. Sartre, L’essere e il nulla, trad. it. di G. del Bo, Il saggiatore, Milano 1997, p. 450.

16I. Calvino, Sotto il sole giaguaro, Mondadori, Milano 1995, pp. 47- 48.

17H. Kleist, Pentesilea, trad. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1989, pp. 89-90.

18J. Derrida, Retorica della droga, trad. it di C. Verbaro, Teoria, Roma-Napoli 1993, p. 42.

19W. S. Burroughs, Pasto nudo, trad. it. di F. Camagnoli, Adelphi, Milano 2005, p. 33.

20Cfr. W. S. Burroughs, Checca, trad. it. di K. Bagnoli, Adelphi, Milano 1998, Prefazione.

21Cfr. J. Derrida, La verità in pittura, trad. it. di G. Pozzi, Newton-Compton, Roma 2005, p. 194.