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nudità nudità


Editoriale


Nella società contemporanea, la nudità dei corpi – umani e non, femminili e non – è dappertutto. Dilaga ovunque, ma non svela nulla, anzi, svela che non c’è nulla da svelare. Diceva Roland Barthes, parlando dello strip-tease, che la donna nel momento stesso in cui si spoglia è desessualizzata. Si può parlare perciò della nudità come di “un ordine di pratiche erotiche” che distanzia e congela la sessualità, la svuota e la riempie ad un tempo. Ma che cosa significa questo congelamento dell’erotismo nel nudo?

Da un lato, la nudità è stata la rappresentazione più dirompente e trasgressiva, l’immagine più veloce e aggressiva della cultura occidentale moderna, e si è resa tanto più visibile quanto più si è estesa, fino ad assurgere ad icona dell’Occidente e a simbolo di quei cambiamenti sociali ed epocali che esso ha imposto al mondo, rendendo per la prima volta sincronizzabile il consumo delle forme estetiche dall’arte al cinema, dalla televisione alla rete.

D’altra parte la nudità, oggi, non è più un’idea, non è più un evento, perché nel suo infinito riprodursi è impossibilitata a far esplodere quella rivoluzione di senso che l’ha sempre caratterizzata in una continua tensione contro ogni forma di ordinamento o di razionalità. Ed è proprio per problematizzare questa neutralizzazione epocale della nudità, che l'ottavo numero di Kainos ha deciso di affrontarne la storia, i caratteri e le metamorfosi.

Nella tradizione filosofica occidentale, la nozione di nudità è stata declinata secondo almeno tre direttrici concettuali: quella dell’esibizione, quella dell’idealizzazione e quella dell’esposizione. In altri termini, il nudo o è esibizione “senza veli”, o è idealizzazione della disvelatezza, oppure è esposizione di un segreto indisvelabile.

Nell’esibizione la nudità appare come “denudamento”. Ma il fenomeno del “denudamento”, a sua volta, si frange al suo interno, scindendosi tra, da un lato, l’esperienza erotica di rivelazione corporea del sacro, vale a dire della visione del limite mortale dei corpi che appare nei suoi “bordi” erogeni (si pensi alla Madame Edwarda di Bataille) e, dall’altro, lo spettacolo pornografico della loro meccanica copulativa.

Nell’idealizzazione il corpo nudo è “costruito” attraverso la rimozione dei suoi orifizi e dei suoi bordi mortali, è illusione naturalistica e “seconda pelle” (Baudrillard), “messa in scena” della bellezza in sé in quanto somma di “oggetti parziali” – si pensi, infatti, all’estetica classica della “bellezza ideale” come risultante della composizione dei tratti più belli dei corpi più belli. In questa prospettiva, dalla poetica della pittura del classicismo ai “corpi nudi” mostrati dalla moda non c’è soluzione di continuità.

Infine, è nell’esposizione che i corpi mostrano la loro assoluta, fattuale “contingenza” e il loro inafferrabile segreto. In verità, nessun corpo, a rigore, può sottrarsi alla nudità come esposizione. Un corpo non esposto nemmeno sarebbe corpo, e tantomeno umano. Non potrebbe aver luogo, perché aver luogo significa entrare in contatto con l’altro, e innanzitutto in un luogo determinato – contingente, appunto. Nel “contatto” i corpi si espongono l’un l’altro e mantengono il loro segreto, sottraendosi all’indiscrezione degli sguardi proprio attraverso il loro esporsi.

È forse dunque la modalità dell’esposizione a fornirci la possibilità di andare al fondo del fenomeno della nudità. Infatti la nudità si declina in pelle e cuore, vale a dire nella massima superficialità e nella massima interiorità. Ma ciò accade in un rimando continuo tra i due estremi, quasi come se nessuno dei due, né la “pelle” né il “cuore”, potesse esser pensato senza l’altro. Ci sono fenomeni del tutto peculiari che attestano questo intimo rimando di superficie e profondità, come ad esempio quello del pudore. La nudità del cuore “messo a nudo” (Baudelaire) diventa vuota retorica sentimentale se non passa attraverso l’esposizione della pelle. E questa diventa mero supporto dei segni della comunicazione e della moda, se non mostra il segreto della singolarità, segreto vuoto come tutti i segreti, ma che dev’essere mostrato in quanto tale per produrre l’esperienza umana della nudità.

La nostra tradizione ha tentato in ogni modo di esorcizzare il fenomeno della nudità, soprattutto attraverso un’ostensione senza pari, che raggiunge il culmine attraverso l’attuale esibizione spettacolare del giovane corpo nudo. Costruita, controllata, rielaborata, la nudità sembra aver perso ogni valore fondamentale, persino ogni luogo, e merita, pertanto, la cura del pensiero, o almeno la sua esposizione più rigorosa.

Anche perchè, se nella modernità il nudo assumeva i caratteri dell’esibizione e/o dell’idealizzazione, l’ingresso del corpo nella post-modernità isola l’estesa mercificazione della corporeità in un modello di trascendenza secolarizzata. Essa muta significato e funzione ad ogni “messa a nudo”: al campo della materialità dei corpi e delle vite in essi rapprese, si sostituisce la flessibilità di relazioni e interiorizzazioni frutto di un’eterogeneità dislocata. Non più, ad esempio, il corpo-macchina, ma la rivendicazione identitaria di “corpi che contano” (Judith Butler) nella nuda dimensione dell’aggregato, nella quale ciò che è nudo non è più (e non fa più la) differenza rispetto a ciò che non lo è, ma mostra una inedita compattezza: nascono sistemi ibridi frutto di una sorta di “assemblaggio teriomorfico” (Roberto Marchesini), effetto cybercorporeo della “molteplicità differenziale” (Donna Haraway).

Si tratta di una nuova forma di nudità fortemente segnata dal crittogramma del corpo: non a caso, nel tatuaggio e nel piercing, che ritagliano parti di sé, il nudo viene ri-lavorato dalla dimensione straordinaria del mito, dell’epopea ecologica, in un post-darwinismo emergenziale e affascinante, in cui finalmente “l’animale che dunque sono” (Derrida) svela forse le radici morali del pudore che proviamo per e di fronte a noi stessi.