sotto giudizio
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Il senso del giudizio.
Bourdieu, Foucault e la genealogia del diritto


di Eleonora de Conciliis
Soltanto in alcuni brevi ma densi saggi, scritti nella seconda metà degli anni Ottanta e tuttora inediti in Italia1, Pierre Bourdieu ha compiuto un’incursione diretta nel mondo del diritto; tuttavia non è esagerato affermare che le analisi dell’habitus del giudice, del campo giuridico e del giudizio come enunciato magico-performativo, appaiono disseminate in tutta la sua opera. Qui si cercherà di illustrare la portata teorica e genealogica di tale disseminazione, tenendosi volutamente distanti sia dagli specialismi della sociologia e della filosofia del diritto, sia dal lavoro più conosciuto e commentato di Bourdieu, La distinzione2. Esaminando invece i numerosi e significativi rimandi a Foucault – un pensatore che egli ha ambiguamente ‘giudicato’ –, sarà possibile interrogare, da un lato, il problematico legame tra l’universalità del giudizio e il carattere politico-emancipatorio della conoscenza; dall’altro, sulla scorta del percorso genealogico compiuto e attraverso espliciti rinvii all’attualità, cercheremo di formulare alcune ipotesi su quella che si può indicare, senza mezzi termini, come la crisi del capitale simbolico-culturale della magistratura.


Il piacere di condannare

Per offrire una sorta di preambolo alla sociologia del diritto elaborata da Bourdieu, conviene partire dalla forma pre- o infra-giuridica del giudizio, quale si trova splendidamente illustrata da Elias Canetti in Massa e potere; conviene, cioè,

partire da un fenomeno che tutti conoscono: il piacere di condannare. [...] Il piacere di esprimere una sentenza negativa è sempre inconfondibile. È un piacere duro e crudele, che non si lascia sviare da nulla. La sentenza è solo una sentenza quando viene pronunciata con una sorta di temibile sicurezza. Essa ignora indulgenza e precauzione. È presto trovata; ed è perfettamente coerente con la sua natura proprio quando scaturisce senza ponderazione. La passione che essa tradisce si collega alla sua rapidità. Le sentenze incondizionate e rapide fanno sì che il piacere si dipinga sul volto del sentenziante. [...] Ci si arroga in tal modo il potere di giudice. Ma solo apparentemente il giudice sta nel mezzo, sul confine che separa il bene dal male. In ogni caso, infatti, egli si annovera tra i buoni. La legittimazione del suo ufficio si fonda soprattutto sul fatto che egli appartiene inalterabilmente al regno del bene, come se vi fosse nato. Egli sentenzia in continuazione. La sua sentenza è vincolante. Ci sono soggetti ben determinati sui quali è chiamato a giudicare; la sua vasta conoscenza del bene e del male deriva da una lunga esperienza. Ma anche coloro che non sono giudici, che nessuno ha incaricato di giudicare, che nessuna persona di buon senso incaricherebbe di giudicare, si arrogano continuamente il diritto di pronunciar sentenze su ogni argomento, senza alcuna cognizione di causa. Quelli che si astengono dal sentenziare poiché se ne vergognerebbero, si possono contare sulle dita. La malattia del condannare è una delle più diffuse tra gli uomini: in pratica, tutti ne sono colpiti.3

Il passo canettiano suggerisce che il diritto, nella sua forza linguistica (nella sua magica «vis formae»4) come nella sua peculiarità storico-istituzionale, non è che una sorta di oggettivazione rituale della tendenza umana, troppo umana a sentenziare e condannare, condita da una sistematica, kafkiana presunzione di colpevolezza. Tuttavia, poiché l’umano non è che una costruzione culturale, si apre da un lato, per il sociologo, l’esigenza di fornire una genealogia – una decostruzione – del campo e dell’habitus giuridici5; dall’altro, l’analisi sociologica richiede (senza per questo volersi o potersi sottrarre all’esigenza di riflessività sollevata da Bourdieu riguardo alle cosiddette scienze umane) una preliminare interrogazione antropologica, linguistica nonché filosofica, sul senso del giudizio.6

Per il pensiero moderno, da Kant a Hannah Arendt, pensare è giudicare, ovvero sottoporre i pensieri comuni e impuri, cioè giudiziabili, al tribunale linguistico della ragione8. Ma l’Ur-theil, il verdetto supremo della filosofia, non è affatto puro e disinteressato, poiché implica una partizione originaria tra superiori e inferiori, deboli e forti, maschi e femmine, ecc., rinviando così al contesto sociale – al campo – in cui viene emesso; proprio in quanto ‘categorico’ e ‘apofantico’, il giudizio esprime, misconoscendola, una relazione di potere che è, allo stesso tempo, una separazione tra sapienti e profani9. Come Bourdieu ha spesso sottolineato, il verbo greco kathegoreisthai significa ‘accusare pubblicamente’: giudicare vuol dire produrre differenze socialmente strutturate e strutturanti attraverso la parola, enunciare tassonomie in modo performativo, creare identità sociali nel medio della lingua. Quindi la sua sociologia tende a dimostrare, o meglio a svelare pubblicamente (con ciò accusandolo), fino a che punto il giudizio (nel suo duplice significato di enunciato e di verdetto, il che ingloba il campo giuridico nel filosofico e viceversa) sia sempre, costitutivamente, classificatorio: il linguaggio giudicante è intrinsecamente comparativo, nel senso che fa essere ciò che è nella sua differenza da altro. La ‘magia’ del giudizio è dunque, per usare la celebre espressione di Mauss, un fatto sociale totale che trova la sua forza simbolica (direbbe Foucault: il suo ordine) non solo nella forma del discorso, ma anche nella postura psicofisica di chi lo pronuncia come di chi lo ascolta.10

In quest’ottica, il giudizio è tanto inevitabile quanto pervasivo, sorta di kafkiano teatro giuridico in cui il corpo del giudice (con la sua toga, la sua voce, ecc.) marca la differenza rispetto al corpo del condannato (con le sue catene, il suo umile vestiario, ecc.): «il processo rappresenta una messa in scena paradigmatica della lotta simbolica il cui luogo è il mondo sociale»11. Poiché, secondo il Pascal letto da Bourdieu, in quanto ‘umani’ noi siamo privi di ragion d’essere (insensati) e bisognosi di una giustificazione per esistere12, ci sentiamo radicalmente esposti al, ma anche affamati del, giudizio altrui. Siamo tutti dei giudici e dei giudiziabili: l’uno giudica l’altro: «Il giudizio degli altri è quello finale; e l’esclusione sociale è la forma concreta della dannazione».13

Il campo giuridico costituisce la struttura simbolica ‘alta’ di questo giudizio universale, il luogo in cui il meccanismo stesso del giudicare, cioè del produrre differenze, viene formalmente intronizzato e separato dalla volgare quotidianità infra-giuridica, che si manifesta invece nella succitata tendenza a “sentenziare e condannare”: «nell’esistenza ordinaria, non si parla praticamente mai di ciò che è se non per dire, per sovrappiù, che è conforme o contrario alla natura delle cose, normale o anormale, consentito o proibito, benedetto o maledetto. I sostantivi sono corredati di taciti aggettivi, i verbi di avverbi silenziosi che tendono a consacrare o a condannare, a istituire come degno di esistere e di perseverare nell’essere oppure, al contrario, a destituire, degradare, screditare»14. Se il giudizio, in quanto pulsione linguistica comparativa, appare più esteso rispetto al campo giuridico, il potere-piacere di giudicare, cioè di condannare o assolvere nell’ambito di tale campo, è a sua volta analogo a quello di uccidere o far vivere, nel senso che ne costituisce il più potente surrogato metaforico. Ma allora il giudizio sovrano, per dirla con Foucault, è anche disciplinare e biopolitico.

Bourdieu sembra giungere per proprio conto ad una simile conclusione, partendo, non a caso, da una feroce critica all’uso intellettualistico del linguaggio compiuto sia dalla filosofia, che dalla stessa linguistica15. Quest’ultima tende infatti a rimuovere completamente la natura sociale della lingua che, insieme all’eterogeneità di posizioni inerente al suo funzionamento, lo stesso de Saussure aveva segnalato16. Se si riconosce al linguaggio, come fanno i neokantiani, un «potere simbolico di costruzione della realtà» sociale17, il linguista non può espellere dalla lingua il suo uso concreto; egli ha anzi bisogno che la sociologia illumini il lato inconscio di tale uso, compreso il suo stesso uso, ossia quanto di sociologicamente impuro (status, cultura, ecc.) lo studioso inconsapevolmente introduce nella propria teoria del linguaggio, nel proprio sapere sul linguaggio. Il rifiuto della linguistica storica da parte degli strutturalisti18 ha impedito loro di riflettere sul fatto che la lingua, prima che un puro «oggetto di intellezione, [è] uno strumento di azione e di potere»19. Il linguista non si rende conto che il proprio «rapporto distaccato e gratuito con il linguaggio»20, la propria padronanza della lingua, è frutto di un privilegio sociale, ovvero il risultato di ‘superiori’ condizioni economico-culturali, che solo la riflessività sociologica può svelare; inoltre, egli evita d’indagare sulla costruzione storica del linguaggio omogeneo che prende per oggetto di scienza, ossia su quella incorporazione di habitus linguistici nazionali uniformi permessa dall’istruzione statale21, la quale, come vedremo, fa da supporto all’edificazione ed al funzionamento del campo giuridico. In sostanza, secondo Bourdieu, è la violenza simbolica, del tutto misconosciuta dai linguisti, a permeare gli scambi linguistici, dal momento che la comunicazione di un significato non avviene mai in forma neutra tra due locutori socialmente eguali e sostituibili, ma sempre in un contesto sensato di posizioni sociali e relazioni di potere, cioè in forma comparativa tra un superiore e un inferiore – per es. il giudice e il giudiziabile: «All’origine del senso oggettivo, che si genera nella circolazione linguistica, c’è in primo luogo il valore distintivo che risulta dal legame che i locutori operano, in maniera più o meno inconscia, tra il prodotto linguistico offerto dal locutore socialmente caratterizzato [ad es. l’arringa o il verdetto] e i prodotti simultaneamente proposti in un determinato spazio sociale»22, che nel nostro caso è quello giuridico. Vale la pena di citare per intero il passo che Bourdieu dedica alla violenza magico-simbolica del diritto, il performativo per eccellenza, che però resta sempre, sotto sotto, il diritto del più forte – più forte nel linguaggio invece che nel corpo, com’era nel pre-diritto:

Benveniste notava che le parole, che nelle lingue indoeuropee servono ad indicare il diritto, si rifanno alla radice dire. Il dire diritto, formalmente conforme, pretende con ciò stesso, e con possibilità non trascurabili di successo, di dire il diritto, cioè il dover essere. Coloro che, come Max Weber, hanno contrapposto al diritto magico o carismatico del giuramento collettivo o dell’ordalia un diritto razionale fondato su quel che è calcolabile o prevedibile, dimenticano che il diritto più rigorosamente razionalizzato non è altro che un atto di magia ben riuscito.
           Il discorso giuridico è una parola creatrice che fa esistere ciò che essa enuncia. Questa parola rappresenta il limite al quale tendono tutti gli enunciati performativi, benedizioni, maledizioni, ordini, auguri o insulti: cioè, la parola divina, la parola del diritto divino che, come l’intuitus originarius che Kant attribuisce a Dio, dà vita a ciò che enuncia, distinguendosi così da tutti gli enunciati derivati, constativi, semplici registrazioni di un dato preesistente. Non si deve mai dimenticare che la lingua, per la sua infinita capacità generativa, ma anche originaria, nel significato che le attribuisce Kant, e che le deriva dal suo potere di dar vita producendo la rappresentazione collettivamente riconosciuta e così realizzata dell’esistenza, è senza dubbio il supporto per eccellenza del sogno di un potere assoluto.23

Padroni della lingua che dice il diritto, il giudice o il giurista hanno, nella società moderna, la più forte «occasione per affermare una superiorità»24 rispetto a degli inferiori, senza bisogno di esercitare direttamente la violenza fisica: «Il limite verso il quale tende l’enunciato performativo è l’atto giuridico che, se pronunciato da chi di dovere, come si conviene, cioè da un’agente che agisce in nome di un gruppo, può sostituire al fare un dire che produrrà certamente un effetto sicuro. Il giudice può consentirsi di dire ‘io vi condanno’, perché esiste un insieme di rappresentazioni e di istituzioni [statali] che garantiscono la realizzazione della sua sentenza»25. Il giudice crea con le parole, esattamente come Dio; egli detiene in una società secolarizzata, ciò che con Weber e Benjamin potremmo definire il monopolio formale della violenza divina insita nella lingua26. Allorquando (come oggi sembra accadere) questo monopolio scricchiola, il giudice perde la sua aura, la sua sacralità, ed il suo sogno di “potere assoluto” si rivela per ciò che è: un’umanissima finzione giuridica, fictio juris.


Genealogia del campo giuridico

Secondo Bourdieu, la codificazione è sempre, essenzialmente, un’operazione logico-formale, un lavoro giuridico di razionalizzazione di ciò ch’è storico e positivo, come dimostra l’opera che i grammatici eseguono su di una lingua per sistemarne e fissarne nel tempo le regole d’uso. Non solo in quello del diritto, ma in ogni campo, la «virtù propria della forma»27 produce un «effetto di universalizzazione»28 che assicura ai suoi membri dei profitti in termini «di calcolabilità e di prevedibilità»29, nella misura in cui permette loro di giocare secondo regole relativamente stabili; nel campo giuridico, tale lavoro di codificazione si spinge al massimo nel rimuovere ogni residuo irrazionale di interesse, insieme alla differenza ordalica della forza che invece nel pre-diritto (come nell’infra-diritto mafioso) decide le sorti della lite. Mostrando una straordinaria vicinanza a Nietzsche, oltre che a Foucault, nelle Meditazioni pascaliane Bourdieu afferma che «il solo fondamento della legge va cercato nella storia, che precisamente, annichila ogni specie di fondamento. All’origine della legge non v’è altro che l’arbitrario (nel doppio senso del termine), la ‘verità dell’usurpazione’, la violenza senza giustificazione»30. Il diritto, in un secondo momento eppure in ogni momento, giustifica l’usurpazione, razionalizza il ‘senza ragione’ della violenza, neutralizza la forza come ‘verità’ e autorità di categorizzare, cioè di accusare pubblicamente: se da un lato «la polizia ricorda con la sua semplice esistenza la violenza extralegale su cui poggia l’ordine legale (e che la filosofia del diritto, soprattutto con Kelsen, teorico della ‘legge fondamentale’, mira a occultare)»31, d’altra parte «poteri fondati sulla forza (fisica o economica) possono ottenere la legittimazione solo da poteri che non possono essere sospettati di obbedire alla forza».32

Al posto dell’interesse, sorge allora la “pia ipocrisisa” del giudice, che, persino quando trasgredisce l’imperativo etico della neutralità, lo fa secondo regole precise che finiscono col consolidare la superiorità e l’inaggirabilità del diritto. In ciò il campo giuridico sembra essere perfettamente solidale con quello del potere politico, del quale contribuisce a mantenere l’ordine simbolico33. Secondo Bourdieu, il campo giuridico costituisce una sorta di ‘costola’ del campo politico del potere: ponendo «la questione delle condizioni storiche che devono essere soddisfatte perché possa emergere, col favore delle lotte interne al campo del potere, un universo sociale autonomo, capace di produrre e di riprodurre, attraverso la logica del suo specifico funzionamento, un corpo giuridico relativamente indipendente dalle costrizioni esterne»34, la sua sociologia del diritto pone la questione genealogica del trascendentale giuridico. In quanto luogo di una concorrenza spietata, benché dissimulata, «per il monopolio del diritto di dire il diritto»35, il campo giuridico rappresenta il territorio originariamente politico in cui ciò che è storico si ammanta di una forma trascendental-razionale, diventa ‘legge di natura’, attraverso un gesto di esclusione che ricorda il partage compiuto dalla filosofia moderna rispetto alla follia: imponendo ai profani, se non l’obbedienza, la magica «credenza nella neutralità e nell’autonomia del diritto e dei giuristi»36, esso intende collocarli per sempre al di fuori, o meglio al di sotto della legge, come potenziali giudiziabili.37

Ma allora, il campo giuridico è un campo pastorale del potere: la forza si trasfigura in divina trascendenza della legge, operando un’inferiorizzazione del profano del tutto simile a quella che il sacerdote opera nei confronti del fedele. Tale profonda analogia tra campo giuridico e campo religioso si estende alla gerarchica, secolare stabilità dell’esegesi testuale (che rinvia entrambi i campi a quello scolastico), ma soprattutto alla forma confessionale del linguaggio che entrambi impongono all’inferiore38, e che costituisce anche il sostrato genealogico del moderno campo medico-psichiatrico: il processo inquisitorio rappresenta l’archetipo, il modello teologico-politico sia dell’esame che dell’anamnesi o verbalizzazione analitica, così come la cogenza dell’arringa e del verdetto si rispecchia nell’irrevocabilità della diagnosi – il che fa degli psicologi, secondo Bourdieu, i nuovi chierici.39

In tale prospettiva, la magia del diritto è un rituale pubblico di sublimazione della forza; essa serve a dissimulare la violenza simbolica del giudizio, come se «la decisione esprime[sse] non la volontà e la visione del mondo del giudice, ma la voluntas legis (o legislatoris40. Perciò l’asimmetria, contenuta nel giudizio, tra superiore e inferiore, giudice e accusato, dev’essere completamente rimossa dal campo giuridico, perché questo possa funzionare: misconosciuta, negata eppure fondativa, essa si esprime nel fatto il giudice, da un lato, si sottomette a ciò che fonda (la legge è uguale per tutti, ed anche lui è, potenzialmente, un giudiziabile), ma dall’altro prova nel giudicare un piacere ascetico, moralmente connotato. In ciò consiste la peculiarità religiosa dell’habitus giuridico: esattamente come il sacerdote, il giudice è il primo a credere in ciò che dice, ed a godere socialmente della propria identità superiore.41

Tuttavia, il Grande Inquisitore dovrebbe essere il primo a dubitare della divinità della sua parola. Quanto più infatti appare preso in trappola dalla sua postura ascetico-aristocratica, quanto più cioè appare dedito alla legge, tanto più egli rischia di ridursi a semplice anello nella catena dell’apparato giudiziario. Il quale funziona, in termini foucaultiani, grazie alla disciplina del sapere-potere: al suo vertice stanno i ‘dominanti’ – giuristi detentori del capitale culturale puro, veri professori del diritto –, mentre alla base si trovano i ‘dominati’ del campo giuridico – ispettori, poliziotti, guardie carcerarie, ecc. In quanto cerniera di trasmissione della macchina della giustizia, «i magistrati tendono ad assicurare la funzione di adattamento al reale in un sistema che, consegnato alla sola dottrina, rischierebbe di chiudersi nella rigidità di un rigorismo razionale»42; insieme agli avvocati, ma a differenza dei poliziotti e delle guardie carcerarie, essi fanno la parte più pulita del lavoro sporco richiesto dal monopolio statuale della violenza. Rispetto a quella (inferiore) del giudiziabile, l’identità del giudice, come quella del burocrate, appare perciò profondamente legata alla sua identificazione sacerdotale con l’apparato che incarna. Tale piacere-potere identitario rinvia al principale snodo della genealogia del diritto abbozzata da Bourdieu, ossia al rapporto tra consolidamento del campo giuridico e nascita dello stato moderno.

Nello stato moderno, il governo della popolazione è affidato alla burocrazia. La nozione di ‘campo burocratico’ viene elaborata da Bourdieu per indicare lo stato quale campo di battaglia in cui si definiscono e si manipolano i beni pubblici43. Ne consegue che il campo giuridico è un campo burocratico, emerso storicamente all’interno del campo politico, grazie ad una «differenziazione strutturale»44, cioè svolgendo una precisa funzione di legittimazione-regolazione-organizzazione del violento potere simbolico-amministrativo dello stato.

Nel saggio Dalla casa del re alla ragion di Stato. Un modello della genesi del campo burocratico (1997)45, Bourdieu descrive lo stato burocratico moderno come un campo di forze e di lotte volte al monopolio della gestione legittima dei beni pubblici. Ma soprattutto mostra in che modo i giuristi, dopo aver legittimato la sovranità dello stato dinastico, hanno legittimato se stessi, realizzando grazie alla cultura, e rispetto al monarca, un completo capovolgimento dei ruoli assai simile al celebre rovesciamento illustrato da Hegel con la dialettica servo-signore: il legame dei giuristi con la riproduzione scolastica e la loro competenza tecnica, li hanno condotti prima ad un relativo potere e poi ad una crescente autonomia nei confronti del re, che, alla fine, ‘dipenderà’ da loro. Secondo Bourdieu, esisteva una profonda ambiguità nel carattere giuridico del potere dinastico: un differenziale simbolico legittimato sia dalla tradizione che dagli stessi giuristi. Gravato da questa contraddizione tra forza della tradizione e forza della forma, nei primi secoli della modernità il potere dinastico tende a trasformarsi, e infine a morire, quanto più cresce il potere giuridico. Se in un primo momento i giuristi tendono a loro volta a confondere il diritto di sangue del re (fondato sulla parentela) con il corpo mistico (ecclesiale) dello stato, in un secondo momento li separeranno, avocando a sé la strutturazione e la legittimazione del secondo, grazie a quello che potremmo definire un nuovo pastorato giuridico. Infatti i giuristi, cioè il vertice della nobiltà di stato accanto al potere fiscale e amministrativo, non si riproducono attraverso il sangue (anche se nella Francia del XVII secolo alcune cariche della nobiltà di toga diverranno ereditarie), ma attraverso la stessa cultura giuridica – esattamente come i sacerdoti si riproducono attraverso quella ecclesiastica. Il loro capitale culturale è, al contempo, simbolico e legittimante, quindi superiore, sulla lunga durata, allo stesso potere dinastico del re46. Ricavando il loro (immenso) potere dallo stato, questi uomini vi si consacrano, vi si identificano senza riserve con un godimento identitario che potremmo chiamare sacerdozio della magistratura.

Nel complesso, quanto più il campo del potere si differenzia47, tanto più, nello stato moderno, aumenta il peso del campo giuridico. Ciò porta al lento tramonto del potere dinastico fondato sull’ereditarietà, ed al rafforzamento del potere burocratico fondato sull’istruzione. Il giudice è l’incarnazione perfetta della cultura scolastica. Il suo habitus si sviluppa, nei secoli XVII-XIX, come forma mentis del ‘servitore dello stato’ che, per il solo fatto di servirlo, gode di particolari privilegi. E, poiché il giudice si chiama fuori dalla lotta politica per l’appropriazione privata di beni pubblici48 (mentre l’avamposto giuridico, l’avanguardia giacobina del diritto, s’insedierà nel potere legislativo), col tempo emergerà un senso di superiorità morale del giudice rispetto al politico di professione. Gli stessi concetti di stato, di bene pubblico e di potere politico dipendono, nella loro corretta ed efficace formulazione, cioè nella loro legittimazione simbolica, dal potere giuridico, per non dire che ne rappresentano una raffinata costruzione, una finzione culturale che viene inculcata, sempre attraverso l’istruzione, nelle menti e nei corpi dei cittadini: «Si comprende in questo modo il ruolo determinante giocato dai cultori del diritto, la cui ascesa accompagnò la nascita dello Stato: di essi si può dire che produssero lo Stato che li produceva, o che si formarono formando lo Stato. [...] Essi costituirono a poco a poco le loro istituzioni specifiche, la più importante delle quali è il Parlamento, custode della legge (e in particolare del diritto civile che a partire dalla seconda metà del XII secolo acquistò autonomia rispetto al diritto canonico). Dotati di risorse specifiche commisurate alle esigenze dell’amministrazione, come la scrittura e il diritto, essi si assicurarono ben presto il monopolio delle risorse più propriamente statali»49. In altri termini i giuristi razionalizzarono, cioè diedero rigore all’esercizio del potere sovrano; introdussero nel processo la pratica razionale dell’inquisitio, sostituendo definitivamente la logica al giudizio di Dio, ma allo stesso tempo, grazie ad una specifica metamorfosi del pastorato, «costruirono l’idea dello Stato sul modello della Chiesa», usando testi (da Aristotele ad Agostino passando per l’Antico Testamento) in cui «la monarchia era concepita come una magistratura»50, e di cui dunque loro risultavano essere i veri sacerdoti, una volta eliminato il re.

Dal punto di vista genealogico, siamo di fronte ad una vera e propria filiazione metamorfica del campo giuridico da quello religioso: il diritto moderno «consacra l’ordine stabilito consacrandone una visione che è una visione di Stato, garantita dallo Stato»51. Si tratta però di una «fictio juris: lo Stato è una finzione dei giuristi che contribuiscono a produrre lo Stato producendo una teoria dello Stato, un discorso performativo sulla cosa pubblica. La filosofia politica che ne deriva non è descrittiva, ma produttiva e predittiva del proprio oggetto [...] Il giurista, padrone di una risorsa sociale comune di parole e concetti, fornisce gli strumenti per pensare realtà fino a quel momento impensabili..., propone tutto un arsenale di tecniche organizzative e di modelli di funzionamento (spesso presi dalla tradizione ecclesiastica e destinati a subire un processo di secolarizzazione), un capitale di soluzioni e di precedenti [...] Tutto induce a pensare che gli scritti attraverso i quali i giuristi cercano di imporre la loro visione dello Stato, e in particolare la loro idea di ‘utilità pubblica’ (di cui sono gli ideatori), costituiscano altrettante strategie per legittimare la propria preminenza affermando la superiorità del ‘settore pubblico’ al quale sono strettamente legati».52

Il campo giuridico è insomma il campo statuale per eccellenza, quello senza il quale lo stato stesso non potrebbe costituirsi come meta-campo capace di regolare i conflitti, dal momento che solo grazie ai giudici esso detiene il monopolio della violenza fattuale trasformata in simbolica53. Il campo giuridico garantisce, con un senso di responsabilità maturato attraverso l’istruzione come habitus ‘distintivo’ del funzionario di stato (anche se la selezione avviene a monte tramite il possesso quasi ereditario del capitale scolastico), il funzionamento dell’ordine pubblico54. Il potere arbitrario del singolo, della sua forza bruta, sparisce, perché ogni funzionario dipende dall’istituzione, anche se cresce il suo potere all’interno di essa, simile a quello di un vertice o di un piccolo motore nella grande struttura dello stato-macchina55. Perciò, secondo Bourdieu, lo stato è essenzialmente anti-natura: la lealtà nei suoi confronti, quella del giudice come del funzionario, implica una hegeliana «rottura con tutte le fedeltà originarie relative all’etnia, alla casta, alla famiglia, ecc.»56. E, mentre in Sorvegliare e punire Foucault delinea la nascita della parte bassa, disciplinare, dell’istituzione anti-naturale dello stato (il carcerario), che però non sarebbe stata possibile senza una parte alta, rappresentata dai riformatori e dagli utilitaristi (da Beccaria a Bentham), egli si dedica all’analisi sociologica del campo giuridico, che sembra costituito a sua volta da una parte alta (l’asse giuristi-magistratura) e da una parte bassa, profondamente contaminata dall’economia (avvocati, notai, ecc.).

Ciò significa che, oltre ad essere un campo sacerdotale di superiorità che esclude i profani-ignoranti (la legge non ammette ignoranza), il campo giuridico va situato in uno spazio sociale che si apre tra il campo politico e quello economico, i quali appaiono a loro volta intrecciati. La burocrazia moderna, dotata agli occhi del profano di un potere magico di efficacia (che si esprime attraverso l’ufficio, la firma, il bollo, il certificato, il registro, la circolare, ecc.57), si afferma cioè come formalmente indipendente dalla politica (il cui diniego appare tradotto dalla separazione dei poteri) e dall’economia (perché disinteressata al denaro), ma in realtà resta profondamente legata ad entrambi i campi.

Bourdieu ha definito il campo politico, sul piano dinamico, un campo di lotte volte a trasformare il rapporto di forze che conferisce a questo stesso campo la sua struttura, in un momento specifico58; sul piano economico, egli lo ha considerato un «luogo dove si generano, con il concorso di agenti che vi si trovano coinvolti, prodotti politici, problemi, programmi, analisi, commenti, concetti, avvenimenti, tra i quali i cittadini ordinari, ridotti allo status di consumatori, devono scegliere, con probabilità di malinteso tanto più grandi quanto più essi sono lontani dal luogo di produzione»59, cioè quanto più sono ignoranti. L’ignoranza della politica è analoga a quella della legge, ed è il presupposto di ogni pastorato: sul mercato politico, virtualmente aperto a tutti, vi sono in realtà pochi produttori che vendono ad una massa di acquirenti indotti e quindi ignari; la stessa cosa si verifica nel campo giuridico con gli avvocati, i notai ed i loro clienti, mentre i giudici vi rivestono un ruolo analogo a quello che, nel campo economico vero e proprio, viene svolto dagli enti regolatori della concorrenza, e nel campo politico dalle istituzioni che governano la vita dei partiti.

Nel complesso, il campo politico (come ogni campo fondato, direbbe Foucault, sul nesso sapere-potere) si costituisce come luogo di concorrenza per un potere che esclude i profani, o meglio, luogo «di una concorrenza per il monopolio del diritto di parlare e di agire in nome di una parte o della totalità dei profani»60. Tutto avviene sempre, per così dire, sopra le teste dei «culturalmente svantaggiati», dunque più portati a sottomettersi perché limitati dall’ignoranza che, con l’umile postura del loro corpo, non fanno che confessare. Il problema politico dell’obbedienza come habitus appare, nei termini di Bourdieu, un problema essenzialmente cognitivo, a cui si aggiunge però l’interesse economico (strategico) ad obbedire, cioè a prestare il proprio consenso, quando si è presi in un gioco di campo in cui si riveste una posizione oggettivamente inferiore, incorporata nell’habitus volgare. Non a caso, nelle Meditazioni pascaliane Bourdieu insiste sul campo giuridico come campo ‘sacerdotale’ di confine tra il linguaggio comune (che contempla un uso volgare, basso, del diritto) e il linguaggio settoriale, alto, del tribunale: l’operazione compiuta nel giudicare uomini comuni, cioè inferiori, consiste nel trasformare la realtà di fatto ‘sollevandola’ ad un altro ambito, quello, appunto, giuridico. Essa ad esempio si compie quando si trasforma un lamento in querela, cioè in un enunciato che ha valore di fronte ad un’istanza giuridica, o pretende una rivendicazione universale. E la «delusione [...] che gli sprovveduti provano di fronte ai tribunali non è che il limite della frustrazione strutturale cui costoro sono condannati in tutti i loro rapporti con istanze burocratiche»61: il linguaggio alto, misterioso, incomprensibile ai profani, è come il latino della messa cattolica: la sua violenza simbolica inchioda il fedele alla propria giustiziabilità.

Tutti siamo dunque dei potenziali giudiziabili senza saperlo, senza sapere perché, quando e come. Kafka ha insuperabilmente mostrato che la sacralità della Legge trasforma il tribunale in chiesa, e viceversa; ma con ciò egli ha insidiato l’autorità di entrambi, la credenza ingenua nel loro potere simbolico62. Josef K. investe nel gioco in cui si trova coinvolto, «si interessa al suo processo»63, perché vuole dagli altri (dal tribunale) la sua giustificazione a vivere (o a morire): perché solo nel mondo sociale l’individuo trova (o perde) il senso di sé. La società è Dio, sostiene Bourdieu riprendendo una famosa espressione di Durkheim. Nel processo, dal quale essenzialmente l’uomo attende una giustificazione alla propria assurda esistenza, «l’attesa implica la sottomissione»64 al giudizio di un’autorità che è tanto più minacciosa, quanto più invisibile e inaccessibile. Ma essa è invisibile perché finta, inaccessibile perché ridicola, grottesca, in ultima analisi ignorante, esattamente come il giustiziabile. Sia nel Processo che nel Castello, Kafka smaschera la forza arbitraria del diritto, la sua falsa, oscura sacralità che affonda nella violenza del pre-diritto, poiché il tribunale, ossia l’istituzione «normalmente incaricata di limitare l’arbitrio» diventa «il luogo per eccellenza dell’arbitrio, che si afferma come tale, senza darsi neppure la pena di dissimularlo»65. L’esplosione malefica della regolarità e della sacralità della Legge dà luogo alla massima imprevedibilità e capricciosità del tribunale. La faccia demonica del diritto invade il campo giuridico, e con esso l’intera società di cui è metafora.

In altre parole, la società moderna non può (più) fornire al singolo la sua giustificazione ad esistere, il suo senso, e non può più farlo perché i ruoli sociali sono anch’essi deformati, come il tribunale, da una forza oscura. La società è Dio, il tribunale è la società, quindi il tribunale è Dio; ma Dio è morto, e si è trasformato in uno spirito malvagio.


Bourdieu giudice di Foucault?

All’indomani della morte di Foucault (che, nel 1981, aveva appoggiato il suo ingresso al Collège de France), e certo in considerazione della comune provenienza dalla ‘scuola’ di Georges Canguilhem, Bourdieu definì il filosofo di Poitiers, sulle pagine di Le Monde, un pensatore «insostituibile»66; eppure, quand’era in vita, non gli aveva risparmiato dure critiche. Non gliele avrebbe risparmiate nemmeno negli anni novanta, in testi chiave come Risposte e Meditazioni pascaliane, nei quali però non mancano riferimenti elogiativi; il che denota una problematica vicinanza tra i due, e non solo sul tema del diritto.

Nelle Meditazioni pascaliane si trovano numerosissime allusioni polemiche a Foucault67, con relative prese di distanza nei confronti dello strutturalismo. Ed in Risposte il giudizio negativo sul primo Foucault sembra essere senza appello: la sua non sarebbe stata che una ‘rivolta adolescenziale’, enfatizzata poi dal termine resistenza, «contro la famiglia e le istituzioni (la scuola, il manicomio, ecc.) che subentrano alla pedagogia familiare imponendo delle ‘discipline’, cioè delle forme d’imposizione sociale che sono totalmente esterne»68. Tuttavia vi è anche un esplicito riconoscimento, laddove Bourdieu considera il potere un effetto magico del linguaggio giuridico, e viceversa: «lo strutturalismo simbolico (alla maniera di Lévi-Strauss o di Foucault in Le parole e le cose) [...] ha l’immenso merito di puntare a far emergere la coerenza dei sistemi simbolici, considerati come tali. Ora, questa coerenza è uno dei principi fondamentali dell’efficacia specifica, come si vede chiaramente nel caso del diritto, dove essa viene deliberatamente ricercata, ma anche in quelli del mito e della religione: l’ordine simbolico poggia in effetti sull’imposizione all’insieme degli agenti di strutture strutturanti che [...] sono coerenti e sistematiche»69, ma che penetrano fin nell’inconscio degli agenti stessi, come habitus, senz’alcun bisogno di imporsi dall’esterno come coercitivi schemi disciplinari. Su questo punto, però, la posizione di Bourdieu appare solo superficialmente distante da quella di Foucault.

Secondo Bourdieu, nell’esercitare la sua violenza simbolica lo stato non si serve tanto di una disciplina coercitiva, intesa come forma brutale ed esteriore del potere, quanto di imposizioni interne al corpo, interiorizzate sotto forma di habitus: schemi pratici derivati dall’incorporazione, attraverso la socializzazione (ontogenesi), di strutture sociali a loro volta derivate dal lavoro storico di generazioni successive (filogenesi). Ora, in quel vero e proprio monumento alla genealogia del campo giuridico che è Sorvegliare e punire, Foucault è stato il primo a parlare della ‘dolcezza’ della disciplina, sorta di addestramento che rende i corpi docili perché attraverso questi ha di mira le anime70: la disciplina può produrre individualità proprio perché accarezza, plasmandoli, i corpi su cui si esercita, conferisce loro un’identità sociale che dura nel tempo. Ed è lo stesso Bourdieu a fondere le due prospettive in un’unica ‘teoria della pratica’ che ha come orizzonte quello dell’istruzione:

Prendo un esempio semplice, tra gli esempi classici di Austin: quello di un ufficiale che dà un ordine ad un soldato. È una cosa estremamente misteriosa. Perché qualcuno obbedisce ad un ordine? Dal momento che ci si pone la domanda, si vede bene che quel che sta dietro all’esecuzione di un ordine è l’ordine militare, è la disciplina. Ma la disciplina è un concetto molto molto esterno, molti sistemi sociali fanno a meno della disciplina. Le forme più potenti di dominazione sono dominazioni senza disciplina, ed è il caso, per esempio, dell’ordine familiare, dell’ordine domestico, è il caso dell’ordine religioso [...] Certo, abbiamo [la disciplina] di Loyola. C’è disciplina [anche nella religione], ma una parte considerevole del funzionamento di un ordine religioso si fa sulla base di disposizioni dell’“habitus” religioso. La questione diventa dunque di sapere come questo ordine militare incorporato, questa sottomissione che rende possibile l’obbedienza immediata, sono costituiti; in altri termini, come sono fabbricate le disposizioni permanenti alla sottomissione. [...] Il fatto che la violenza sia universale non implica che non sia violenza. [...] Ebbene, lo stato attraverso la potenza della scuola pubblica può imporre tutte queste cose alla totalità di una popolazione.71

Nella stessa intervista, parlando della possibilità da parte degli individui di emanciparsi dall’incorporazione inconsapevole della violenza simbolica (statuale e non), Bourdieu assume una posizione esplicitamente affine a quella di Foucault, quando dichiara: «credo che, tra gli strumenti di liberazione dalla violenza simbolica, certi strumenti specifici degli intellettuali, e penso in particolare alla genealogia foucauldiana [siano utili...]. Penso che la sua [sc. di Foucault] storia sociale dei concetti, la storia sociale delle nozioni universali, vissute come universali, sia estremamente importante, non per relativizzare questi concetti, e quindi il concetto stesso di violenza simbolica, ma per mostrare che si sono avute certe condizioni sociali di possibilità di queste nozioni». In altri termini, è stato Foucault a mostrare che si poteva fare la genealogia dei trascendentali storici vissuti come naturali – l’ontologia storica del presente –, e con ciò offrire un margine alla libertà, una sponda alla possibilità di modificare gli habitus ed i campi in cui gli uomini agiscono, aprendo la strada a nuovi processi di soggettivazione. Considerandolo però un “intellettuale particolare” (mentre Sartre era stato un “intellettuale totale”), Bourdieu intende se stesso come un “intellettuale collettivo” che ha il compito di «produrre e diffondere strumenti di difesa contro la dominazione simbolica» per trasformare gli habitus degli individui, cioè le loro disposizioni, i loro schemi mentali vissuti erroneamente come ‘naturali’ perché inscritti nei loro corpi. Non è molto diverso da ciò che intende Foucault quando afferma che il suo compito è quello di mostrare altre possibilità di condotta soggettiva, cioè un ‘altrimenti’ rispetto al potere-sapere moderno, così come si è costituito attraverso le metamorfosi storiche del pastorato.72

Nella Lezione sulla lezione, che inaugura il suo insegnamento al Collège de France, alla presenza dello stesso Foucault, Bourdieu spiega che «la storia sociale della scienza sociale, a patto di concepirsi anche come una scienza dell’inconscio, secondo la grande tradizione storica illustrata da G. Canguilhem e M. Foucault, è uno dei mezzi più poderosi per strapparsi alla storia, cioè all’autorità di un passato incorporato che si perpetua nel presente o di un presente che, come quello delle mode intellettuali, è già passato nel momento stesso in cui fa la sua comparsa»73. Dunque, attraverso la ‘sociologia della sociologia’, Bourdieu ha compiuto il tentativo, molto foucaultiano, di «costruire un’antropologia generale fondata su un’analisi storica delle caratteristiche specifiche delle società contemporanee»74. Se è così, resta da capire perché Bourdieu ha parlato continuamente di Foucault, lo ha ‘giudicato’75, mentre Foucault ha sempre evitato di esprimere giudizi sulla sua opera di sociologo. E perché questa differenza si riverbera, significativamente, proprio sulla genealogia del diritto e sul potere di giudicare.

Per entrambi, com’è noto, il potere non esiste come sostanza, bensì come relazione strutturante e differenziante tra gli individui. Lo strutturalismo genetico di Bourdieu sembra particolarmente affine alla genealogia di Foucault proprio nel campo giuridico, di cui entrambi indicano il carattere specificamente relazionale: la relazione giuridica, che dovrebbe proteggere dall’arbitrio del potere, dalla sua violenza, ne è in realtà il prodotto più raffinato.

La divergenza tra i due si consuma su altri piani. Il primo è quello della pretesa all’universalità, cui Bourdieu non vuole rinunciare: «Bisogna abbandonare la questione del fondamento e accettare che il diritto, come la scienza e come l’arte (poiché in materia di diritto e di estetica i problemi sono i medesimi), non può essere fondato che nella storia, nella società, senza che siano annullate con ciò le sue pretese di universalità»76. Il secondo livello, invece, è quello propriamente linguistico del circolo vizioso, cui Bourdieu contrappone la presa sul reale consentita dalla sociologia: «Il diritto è la forma per eccellenza del discorso agente, capace, per sua intrinseca virtù, di produrre degli effetti. Non è eccessivo dire che esso fa il mondo sociale, a condizione però di non dimenticare che da quest’ultimo al tempo stesso è fatto. In effetti, è importante interrogarsi sulle condizioni sociali (e sui limiti) di questa efficacia quasi magica, pena la caduta nel nominalismo radicale (suggerito da certe analisi di Michel Foucault), e la supposizione che siano prodotte da noi le categorie secondo cui costruiamo il mondo sociale, e che siano queste stesse categorie a produrre questo mondo [...]. In tal senso, soltanto un nominalismo realista (o fondato sulla realtà) permette di rendere conto dell’effetto magico della nominazione, colpo di forza simbolico la cui riuscita è condizionata dal suo essere ben fondato nella realtà».77

Dunque, è in senso anti-strutturalista che Bourdieu accusa Foucault di ‘nominalismo’: di aver rinvenuto una virtualità esclusivamente discorsiva del potere staccata dalla realtà sociale, rischiando di rendere pura e astorica la stessa genealogia. Ma quest’accusa viene mossa a Foucault all’interno di un discorso che non può non apparire, a chi lo legga con attenzione, sostanzialmente foucaultiano, nonché particolarmente vicino ai temi affrontati da Foucault in alcuni corsi tenuti al Collège de France a metà degli anni settanta. L’influsso di Canguilhem permette infatti a Bourdieu, come a Foucault, di passare dal ‘sospetto’ nei confronti della normalizzazione78, all’analisi funzionale-economica di quei poteri che, tracciando il confine tra normale e patologico, tendono a colonizzare il campo giuridico allo stesso modo in cui questo, tracciando il confine tra giuridico ed infra-giuridico, tende a colonizzare l’intera società.79

È sulla scorta di tali considerazioni che si possono superare quelli che sembrano essere dei cavilli di scuola80, per marcare le reali differenze tra i due e ribadirne le analogie profonde.

Nella prospettiva di Bourdieu, il potere si esercita grazie ad un’omologia tra strutture mentali (habitus) e sociali (campi). Secondo il suo allievo Wacquant, «questa prospettiva differisce da quella di Foucault nella misura in cui non presuppone la mediazione del ‘discorso’ e riconosce che l’energia sociale costitutiva delle varie specie di capitale non è ‘dispersa’ nel corpo sociale, ma concentrata nel campo del potere (e non in quello dello Stato per sé)»81. Ora, solo ignorando, da un lato, l’analisi degli scambi linguistici fornita dallo stesso Bourdieu82, dall’altro i fondamentali corsi foucaultiani del 1976 e del 1977-78, è possibile affermare qualcosa di simile83. A ciò si aggiunge un altro fraintendimento, quanto meno tendenzioso: secondo Wacquant, Foucault avrebbe teorizzato nelle sue ultime opere un potere “spontaneista” e decentrato «che si eleva dal basso per disperdersi nelle reti che costituiscono la società»84. Ma quando Foucault parla dell’‘elemento sfuggente’ (che esisterebbe dovunque, quindi anche nei ‘dominanti’85), ed anche quando, nella Volontà di sapere, afferma che «il potere viene dal basso», non lo concepisce affatto come una germinazione spontanea, bensì come una forza relazionale diffusa, che può essere esercitata anche dai ‘dominati’. Tale concezione lo accomuna ancora una volta a Bourdieu, come lo stesso Wacquant non manca di rilevare86. Dunque non è completamente vero che per Bourdieu, a differenza che per Foucault, il potere non si disperde, ma si concentra piuttosto nelle forme istituzionali, anche perché di alcune di queste forme lo stesso Foucault ha fatto la genealogia in Sorvegliare e punire (= il carcerario) e nei succitati corsi della metà degli anni settanta (= il manicomio). Certo, Bourdieu non ha realizzato un’analisi ascendente del potere (dal basso verso l’alto), cioè una microfisica, bensì un’analisi socio-storica della riproduzione dei capitali che garantiscono l’identificazione con le istituzioni, prima fra tutte la scuola; ma ad un interprete privo di pregiudizi le due analisi, o meglio le due genealogie, non appaiono affatto in contrasto, bensì perfettamente complementari.

Infine, ci sembra un doppio errore sostenere che, a differenza del potere-sapere foucaultiano, la violenza simbolica teorizzata da Bourdieu «non presuppone la mediazione del discorso, o di un corpo di saperi che rivendica l’accesso alla verità, come avviene nell’analisi foucaultiana del bio-potere e dell’ascesa della società disciplinare»87. Secondo Wacquant, tale violenza agisce invece in modo inconscio, incorporandosi nell’habitus, per cui «al triangolo ‘potere-diritto-verità’, Bourdieu sostituisce il triangolo ‘potere-corpo-credenza’»88. Qui egli mostra di ignorare, da un lato, testi fondamentali (tra cui il già citato La parola e il potere) nei quali Bourdieu non fa che inserire nell’esercizio del potere la mediazione del linguaggio, istituendo un triangolo sociologico ‘potere-diritto-verità’ del tutto parallelo a quello istituito da Foucault in diversi testi e nel primo corso tenuto al Collège de France89. D’altra parte, considerando le pagine di Sorvegliare e punire in cui viene descritta la dimensione corporea, dunque inconscia della disciplina (l’addestramento), come pure il concetto foucaultiano di verità-evento90, non si può accusare Foucault di aver privilegiato il discorso e il sapere a discapito della dimensione reale, corporea della forza e della violenza, poiché in tale concetto i primi fanno corpo con le seconde: la parola fa tutt’uno con l’azione, in un’unica dimensione simbolica del potere, in un unico linguaggio-arma che si manifesta principalmente nella forma del giudizio. In Foucault, infine, è presente la ‘dolce’ – pastorale – violenza del potere di giudicare, benché ovviamente non negli stessi termini usati da Bourdieu, quando indaga sul godimento provato dal soggetto che subisce l’ingiunzione a confessare (aveu), mostrando all’opera il perverso, piacevole triangolo ‘potere-corpo-credenza’, o meglio: potere-parola/corpo-identità.91

Non è dunque un caso se, nonostante le divergenze filologicamente attestate, sul piano politico Foucault e Bourdieu convergano sensibilmente. La loro «efficacia politica»92 consiste infatti nel sottrarre la verità all’apofantizzazione: nel mostrare che essa è storicamente conquistata e prodotta, e che dunque i criteri di classificazione e di veridizione che appaiono all’insipiente (all’assoggettato, al dominato) come stabili, meta-storici, naturali, ecc., devono la loro superiorità ad una violenza simbolica che, nel presentarsi come la verità, occulta la sua impura provenienza genealogica, il suo essere una verità che si è imposta su altre come unica e legittima, e per farlo ha dovuto misconoscere (rimuovere) tale processo: «Se c’è una verità, è che questa verità è un traguardo in vista del quale si scatenano delle lotte».93

In sostanza, sembra che i due abbiano in comune lo sforzo di dis-assoggettare il soggetto moderno94, ma che abbiano perseguito quest’obiettivo attraverso strade diverse. In Bourdieu la scelta della sociologia non appare soltanto come un rifiuto degli aspetti deteriori della postura filosofica95, ma anche come un tentativo di conservare l’ambizione ad una scienza unitaria (che il ‘relativista’ Foucault avrebbe invece abbandonato96) elaborando, al posto di un’astratta filosofia sociale priva di empiria, una sorta di sociologia filosofica che implichi, come esercizio riflessivo, una sociologia della stessa postura filosofica97; dal canto suo, Foucault è stato un genealogista straordinario, capace di separare le ideologie dalle procedure, cioè il ‘discorso’ dalle ‘pratiche’ e dalle tattiche disciplinari che esse hanno realizzato nella modernità98. Egli avrebbe avuto, secondo Michel de Certeau, il merito di scoprire «il gesto che ha organizzato lo spazio del discorso»99, un gesto a suo parere non discorsivo (originario?), ma che, nelle intenzioni di Foucault, doveva unire il fatto e l’enunciato, le pratiche discorsive e quelle non discorsive100: nei termini di Bourdieu-Mauss, le tecniche del corpo ed il potere magico-performativo della parola. Leggendo attentamente Sorvegliare e punire, si comprende che il progetto illuministico relativo al diritto (il discorso sulla/della giustizia) non si presenta affatto separato, bensì complementare rispetto alle procedure disciplinari che ben presto prendono in carico il giudiziabile ‘pensato’ moralmente dai riformatori101: le tecnologie disciplinari (tecnologie politiche del corpo), con il loro portato individualizzante, non sono opposte alla teoria universalizzante della riforma penale iniziata nel Settecento, ma ne accompagnano, potenziandola grazie al carcerario, la realizzazione e la conseguente colonizzazione del sociale.102

In questa prospettiva, la genealogia del potere tracciata da Foucault sta alla base sia del diritto penale, cioè del potere di giudicare l’uomo per poi punirlo, sia delle scienze umane, cioè del potere di conoscere e oggettivare l’uomo come allotropo empirico-trascendentale. Per tale motivo, secondo de Certeau, nell’immane riserva delle pratiche disseminate nel sociale, cioè nelle tattiche senza discorso, Foucault ha selezionato quelle che, diventando dominanti tra il Sette e l’Ottocento, hanno avuto accesso al sapere giuridico-scientifico, costituendosi come dispositivi, istituzioni, teorie, ecc., e dando luogo, nei termini di Bourdieu, a campi ed habitus specifici, oltre che durevoli. In termini foucaultiani, la disciplina ha funzionato come tecnologia politica degli individui fino a che non è stata affiancata (non completamente sostituita, vampirizzata103) dalla governamentalità e dalla biopolitica.

Ma, allora, è proprio la ricerca genealogica di Foucault a permettere il superamento di quella divisione fittizia, che secondo de Certeau sarebbe stata istituita dallo stesso filosofo di Poitiers, tra ideologie (cioè discorsi) e procedure, cioè tra il fatto e l’enunciato. Un simile paradosso è però, a sua volta, fittizio: serve ad instaurare un’ulteriore complementarietà. Secondo de Certeau, vi sarebbero procedure private (tecniche o tattiche senza discorso, spesso inconsce) che non farebbero parte di quelle selezionate da Foucault attraverso la disciplina prima, la governamentalità e la biopolitica poi, ma che, anch’esse, hanno dato luogo al quotidiano, lo hanno ‘inventato’, in quanto incentrate sul consumo di beni, o meglio sull’organizzazione sociale del consumo di beni (ad esempio, delle donne). Sarebbero queste tattiche ad essere state analizzate da Bourdieu, il quale avrebbe dunque elaborato una ‘teoria della pratica’: una teoria sociologica di quelle procedure che non sono state catturate dalla disciplina, ma che nondimeno fungono inconsce nella strutturazione dell’esperienza individuale e collettiva, sono cioè ‘fatti sociali totali’, per usare ancora una volta la celebre espressione di Mauss. Ciò che Foucault non avrebbe colto con la genealogia della disciplina, lo avrebbe colto Bourdieu con la teoria della pratica e dell’habitus, passando, come Lévi-Strauss e lo stesso Mauss, dall’etnologia alla sociologia, dalla psicoanalisi alla socioanalisi. La «dotta ignoranza» di Bourdieu consiste insomma nell’aver illuminato il «lato notturno»104 della ricerca sociologica, i comportamenti inconsapevoli che la circondano e la precedono, in quanto organizzano lo spazio ed il linguaggio quotidiano105. Mentre Foucault ha fornito la genealogia delle tassonomie, del controllo attraverso lo sguardo, del governo panottico e poi statistico della popolazione, Bourdieu ha individuato quei principi impliciti (corporei e inconsci: habitus), quelle strategie (giochi ‘interessati’ attraverso regole non scritte: campo) che presiedono all’organizzazione nonché all’azione sociale. Dunque entrambi hanno articolato, sebbene a diversi livelli, un discorso su pratiche non discorsive106: le loro opere, per quanto lontane, hanno in comune lo stesso «schema operativo»107, che produce teoria attraverso una continua suddivisione ed un capovolgimento euristico del materiale selezionato, definibile, à la Foucault, “panottico”, oppure, à la Bourdieu, “inquisitoriale”.

Da tale punto di vista, la parte più interessante del discorso di de Certeau non riguarda tanto la distinzione fittizia tra i due pensatori (o meglio il loro circolo virtuoso, poiché l’adeguamento delle pratiche alle strutture avviene attraverso acquisizione di disposizioni, cioè attraverso violenza simbolica ed educazione, in ultima analisi: disciplina); non concerne la differenza tra, da un lato, problematica generazione delle pratiche attraverso le strutture e viceversa (Bourdieu), dall’altro produzione degli individui attraverso queste pratiche e queste strutture (Foucault), quanto piuttosto l’interrogativo circa la possibile crisi di tali strutture e di tali pratiche. Se infatti il Bourdieu etnologo non si stanca di analizzare la famiglia, il patrimonio, le istituzioni nelle attuali società tecnocratiche, nelle sue opere appare meno indagata la crisi contemporanea del nesso politica/cultura che investe, in primo luogo, il campo giuridico e l’habitus del magistrato; nel suo capolavoro sociologico, La distinzione108, essa viene soltanto accennata, ma non veramente tematizzata, mentre a sua volta Foucault, morendo prematuramente, non ha avuto il tempo di applicare la propria tecnica di scavo genealogico alla società contemporanea, se non di sbieco, nel corso del 1978-79 sulla Nascita della biopolitica. Entrambi cioè scoprono il ‘passato’ del quotidiano, la sua invenzione stratificata, non le emergenze del suo presente. Non a caso, la principale difficoltà che s’incontra nell’applicare i concetti sociologici di Bourdieu (habitus e campo) all’attualità, deriva dal fatto che essi sono stati elaborati a partire da società tradizionali che costituivano un sistema chiuso e relativamente stabile (ad esempio quella cabila), mentre la società attuale va incontro ad instabilità comportamentali e conflitti di campo mai visti prima nella storia delle civiltà umane. Allo stesso modo, lo scavo genealogico di Foucault nell’età antica, nel medioevo e nei primi secoli della modernità non ha quasi potuto proiettarsi sul mondo contemporaneo, su «questa realtà etnologica, che ora è inutile andare a cercare in Australia o nella notte dei tempi, [perché] si ritrova nel nostro sistema..., o a fianco, se non all’interno delle nostre città..., o ancor più vicino (nell’‘inconscio’)».109


Bourdieu giudice dei giudici

Secondo de Certeau, Bourdieu ha avuto il merito di svelare il privilegio di campo dello sguardo del sociologo-re, il quale, in quanto giudice chiuso nella sua istituzione giudiziaria (la sociologia), produrrebbe discorsi coerenti con i suoi stessi privilegi, misconosciuti insieme all’interesse con cui partecipa al gioco di campo. Ma, nei testi finora analizzati, Bourdieu non sfugge del tutto alla tentazione di farsi egli stesso giudice dei giudici, cioè di acconsentire più o meno inconsciamente a ciò che smaschera: la forza della ragione, il suo straordinario potere di giudicare. La sua libido iudicandi è quindi alla seconda potenza: egli sentenzia su chi sentenzia. E per far questo, il suo «dispositivo inquisitore»110, tribunalizio e processuale, ingiunge al muto di parlare, ossia, in termini foucaultiani, traspone in linguaggio scientifico (sociologico) una pratica consolidata dalla tradizione: l’habitus giuridico.

Se, in termini kantiani, il dotto è assimilabile ad un giudice che costringa i testimoni a rispondere alle sue domande, gli studiosi (nel caso specifico, i linguisti) «vogliono essere giudici di tutti i giudizi e critici di tutti i critici»111. Ma anche Bourdieu lo vuole, dato che la posta del suo gioco è pur sempre la conoscenza del mondo sociale, e benchè tenti di esorcizzare (di demistificare) il sogno del “potere assoluto” della parola, il diritto regale (massimamente mistificatorio) di «regere fines e di regere sacra»112. Se insomma il tribunale della ragione sociologica giudica i giudici (Kant avec Bourdieu), pur rischiando la cattiva infinità, il regresso all’infinito della riflessività, cercheremo nietzscheanamente di giudicare il tribunale kantiano della ragione, incarnato dal sociologo Pierre Bourdieu.

La critica radicale del diritto, lo svelamento del lusso del giudice, la decostruzione delle sue qualità sacerdotali, si fondano su un altro lusso non meno occulto, quello del sociologo-re, sul quale dev’essere dunque esercitata la stessa spietata riflessività che Bourdieu impiega nella sociologia del campo giuridico, e che più in generale egli richiede ai giocatori coinvolti, grazie al privilegio della skholè (l’otium intellettuale), nei diversi campi del sapere. Si tratta, a ben guardare, di una richiesta di carattere morale. Non diversamente da Foucault, Bourdieu intende esplicitare i margini di libertà insiti nella conoscenza critica della storia, tenendo conto del fatto che tali margini, in quanto frutto esclusivo di una consapevolezza privilegiata, di un lusso cognitivo che è appunto quello dell’intellettuale, rischiano di essere aristocratici, cioè di restare particolari e non universali. Ma mentre Foucault, pur restando nella sua concezione della storia profondamente kantiano113, sembra accettare il rischio ed essere coerente con tale esclusività114, sembra cioè aver nietzscheanamente liquidato ogni pretesa morale all’universale (soprattutto quando teorizza l’estetica dell’esistenza), Bourdieu lo ‘giudica’ poiché rimane tormentato da un problema di ascendenza illuministica: universalizzare le condizioni di accesso all’universale, cioè, in ultima analisi, alla cultura, alla conoscenza, al giudizio intellettuale.

Come il politico, l’intellettuale si fa portavoce di un collettivo; tuttavia egli non parla semplicemente al posto di qualcuno, ma parla per qualcuno, allo scopo di fargli avere accesso alla parola, di condurlo al potere della parola. Il primo aspetto del problema è che nel farlo, nell’e-ducare alla parola, l’intellettuale, come l’insegnante, esercita comunque un potere, che è, appunto, il potere di giudicare. Il secondo aspetto del problema consiste nell’impossibilità di far produrre ad un gruppo un’opinione consapevole di esser tale, cioè una ‘volontà generale’ (rousseauianamente intesa) fondata sulla cultura di tutti: il capitale culturale produce identità proprio perché strutturalmente selettivo; si acquista sottoponendosi al giudizio altrui ma contemporaneamente e piacevolmente inferiorizzando coloro che, quest’esame, non lo reggono: gli ignoranti115. Ora, è proprio la sociologia di Bourdieu a svelare il meccanismo della distinzione, l’educazione alla differenza culturale come superiorità: ciò che l’intellettuale pensa di sé come essere unico, innato, ecc., si scopre essere comune e acquisito. Ed è nella storia strutturale degli spazi sociali, o nella storia foucaultiana delle pratiche, che si producono quelle disposizioni che creano i ‘grandi uomini’ nei vari campi in cui essi investono le loro energie116. Quindi il problema etico-politico resta: nel campo, solo alcuni diventano grandi, e la loro «coesistenza antagonistica» si basa pur sempre sul gioco delle loro «differenze».117

Bourdieu riconosce senza mezzi termini il privilegio dell’intellettuale: «avere tempo»118 per poter smascherare il potere, sia quello effettuale e simbolico (statuale, militare, pedagogico, giuridico, ecc.), sia, ovviamente, il suo stesso potere ineffettuale. Il privilegio dell’intellettuale è infatti esclusivamente quello di un giudizio sul mondo e su se stesso, ed è lo stesso privilegio che insidia il punto di vista del sociologo-re, ovvero di colui che tiene le fila, che regge l’intero edificio del sapere. Questo punto di vista del sapere, che Bourdieu dice di voler creare come «aperto a tutti», in realtà è tipico di colui che vive il lusso della soggettivazione come differenza (anche rispetto al proprio campo, con un infinito gioco di rimandi tra riflessività e interesse): «Solo a condizione di sapere dove mi trovo nello spazio, e che ho un punto nello spazio che deve qualcosa al fatto di essere un punto in questo stesso spazio, ho qualche possibilità di essere veramente un soggetto».119

Il potere regale degli intellettuali sugli ignoranti non è, tuttavia, reale: pur provando lo stesso piacere identitario, a differenza del giudice e dell’insegnante l’intellettuale può sovranamente giudicare ma non realmente condannare, bocciare o respingere nell’inferiorità sociale – gli resta preclusa la magia della parola giuridica come di quella pedagogica. Il suo è piuttosto il piacere (moralistico) dello svelamento della verità: la verità esiste soltanto come smascheramento delle meschine ed ‘illusorie’ verità dei campi. In altri termini, se l’uomo sogna di esercitare il “potere assoluto” attraverso la parola, sogna di diventare Dio, per il sociologo-intellettuale che sogna di demistificare Dio, cioè per lo stesso Bourdieu, questo potere è davvero ab-soluto, sciolto dalla sua effettualità: egli giudica senza potere giuridico, per il puro piacere di giudicare120. Per evitare di incorrere in tale ascetica tentazione (ma è possibile? la volontà di evitarlo, che Bourdieu manifesta, non è già essa stessa un giudizio, una posta in gioco nel ludus illusorio e sopraffino della cultura?), la sociologia deve «assumere a proprio oggetto, invece di caderne vittima, la lotta per il monopolio della rappresentazione legittima del mondo sociale», che è una «lotta delle classificazioni»121, ovvero una lotta comparativa la cui posta in gioco consiste nel detenere una posizione dominante nella capacità di classificare gli altri, di giudicarli. Bourdieu ha ‘ragione’ nel dire che l’emancipazione dei dominati (i «malclassificati») passa attraverso la conquista del «monopolio del potere di giudicare»; tuttavia nel turbine di questa lotta, o aspirazione razionale alla riflessività, egli deve mettere anche se stesso in quanto giudice ‘riflessivo’ dei giudicanti, in quanto meta-giudice che svela il meccanismo stesso del giudicare ma, così facendo, lo giudica.

Quest’impasse si ritrova nello sforzo compiuto da Bourdieu per uscire dal circolo vizioso tra habitus e campo, cioè per indicare la possibilità di trasformare l’habitus attraverso la (lussuosa) conoscenza dell’habitus medesimo, nonché del campo in cui è situato e da cui è prodotto colui che conosce. Tale trasformazione, per Bourdieu, può essere praticata soltanto tramite una presa di coscienza che consenta di ridiscutere e ridefinire le disposizioni dei soggetti. Ma le possibilità di questa specie di autoanalisi sono determinate sia dalla struttura dell’habitus che dalle condizioni del campo, a partire dalle quali si verifica la presa di coscienza: l’analisi riflessiva svela, proprio in quanto disposizione inconscia (habitus), i condizionamenti che abbiamo incorporato e che agiscono in noi solo fintanto che ne siamo inconsapevoli, cioè solo grazie all’ignoranza. Perciò è lo stesso Bourdieu a correggere il tiro: «‘Habitus’ è la traduzione [latina] dell’‘hexis’ aristotelica. Lo dico per ricordare che si tratta di qualcosa di acquisito: ‘hexis’ viene da ‘hekhein’, avere; ‘habeo’ è qualcosa di acquisito attraverso l’apprendimento, quindi qualcosa di costituito storicamente; il che implica che è storicamente decostituibile. Infatti, qualcosa di storicamente costituito può sempre essere decostituito, trasformato dalla storia. Semplicemente si opera un lavoro storico, e questo non può operarsi attraverso il miracolo di una presa di coscienza»122, poichè (quod erat demonstrandum) tale ‘miracolo’ si ottiene solo attraverso l’apprendimento: attraverso la faticosa acquisizione della cultura, che, daccapo, non tutti riescono ad acquisire. E così via, all’infinito.

Bourdieu dev’essersi reso conto di questo regresso all’infinito, quando ha cominciato a porre politicamente la questione della posizione di chi descrive il campo e rende conto dei diversi habitus123, cioè quando ha evidenziato le implicazioni di potere insite nella posizione dell’intellettuale in quanto produttore-svelatore di verità, che sono il risultato di rapporti di forza. Incalzato dalle domande che Michel Benassayag gli rivolge in proposito124, egli risponde sostanzialmente in due modi: da un lato, confessa, ha voluto mettere a tacere i colleghi, quindi è stato guidato dal piacere dello smascheramento dell’interesse di chi gioca nel suo stesso campo accademico, intellettuale, sociologico, ecc.; dall’altro, Bourdieu ama la verità come fine soggettivo, dal momento che nega, storicizzandola radicalmente à la Foucault, la sua presunta oggettività/neutralità. In altri termini, Bourdieu ‘gode’ nel pensare la realtà in forma critica. Ma, soprattutto negli ultimi anni, è in gioco per lui la possibilità di trasformare il proprio lavoro personale, la propria critica agli intellettuali ed alla sociologia tradizionale, in un sovvertimento universale (dunque morale) delle forme di dominio; tuttavia non smette mai di ricordare i limiti della trasformazione del mondo sociale, o meglio si mostra scettico circa la possibilità che un habitus come il suo (di smascheramento cognitivo del mondo sociale) venga esteso a tutti gli individui che, questo mondo, lo compongono come mega-campo d’interesse e di asimmetrie dominanti-dominati. «Ho voluto essere qualcuno che contribuisce a fornire strumenti di liberazione», afferma in una delle ultima interviste125. Ma, come acutamente osserva Pascale Casanova nel corso della medesima intervista, ci troviamo di fronte ad un paradosso: Bourdieu spiega che noi siamo prigionieri delle costrizioni sociali, e che il solo spazio di liberazione è la sociologia, la quale però si limita a liberarci spiegandoci che siamo prigionieri126. Dunque l’unico vero spazio di libertà, irrimediabilmente ineffettuale, è quello (conoscitivo) del giudizio: lo spazio in cui il sociologo-re esercita il potere di giudicare come non-libera la società che osserva, avendo peraltro l’onestà intellettuale di includervi anche se stesso (= valore morale della riflessività).

Bourdieu è un disvelatore di verità, non in senso ontologico (per lui la verità come oggetto, come enunciato e tanto meno come Essere, non esiste), bensì sociologico: egli mostra in chiave sociologica (cioè ancora scientifica) il rapporto tra storicità e verità, cioè la parzialità della posizione degli altri, il loro interesse di campo, ma restando forse un passo indietro rispetto a Foucault, il quale in chiave genealogica (cioè definitivamente non scientifica), ha indicato la verità come evento e posta in gioco, dunque come risultato di una lotta parziale, de-neutralizzandola. Se per Foucault dire la verità al e sul potere, fare-verità, questa verità, e poi universalizzarla come ‘giudizio’, equivale ad esercitare un potere simile a quello che esercita il giudice quando emette la sentenza nei confronti dell’imputato, la risposta di Bourdieu, il suo ‘giudizio’ su Foucault, potrebbe essere il seguente: «la verità è una creazione della storia, il che non vuol dire che essa è storica. Penso vi sia una genesi storica della verità, e ciò non relativizza di per sé la verità»127. Pur rigettando la metafisica cartesiana, egli non intende dissolvere completamente il soggetto razionale128; e la verità che non va relativizzata, pur riconoscendone l’impura storicità, è quella enunciata in modo apparentemente neutrale dal giudice, dal soggetto razionale, dallo scienziato Bourdieu, sulla stessa genesi storica della verità: è una verità che emerge dalla storia come punto di vista giudicativo, scientifico-riflessivo, ma anche rabbiosamente morale.

Il tratto narcisistico comune a Bourdieu e Foucault è rappresentato dall’intenso piacere-potere di trarsi fuori dal gioco per poterlo svelare: come Bourdieu confessa a proposito di Homo Academicus e di ciò che provava nell’oggettivare concorrenti e colleghi di campo: «C’è un certo sottile piacere nel dire: ‘Guardate come sono ingenui, adesso descriverò le regole con cui giocano, ecc.’»129. Questo godimento intellettuale insito nel superare l’altro, nel dimostrarsi più intelligente di lui, nell’inferiorizzarlo attraverso il giudizio e lo svelamento della sua ingenuità, è completamente diverso da quello che noi chiamiamo, comunemente, piacere (fisico, affettivo, ecc.): è il piacere di chi pensa per impedire agli altri di farlo in modo innocente130. Il sociologo-re confessa a se stesso di avere «la pulsione del filosofo onnisciente che domina, sovrasta, oggettiva, ecc.»131, cercando tuttavia di spogliarsi del carattere paranoico di questa pulsione, ovvero di trasformarla in qualcosa di scientifico, lavorando innanzitutto su se stesso; perciò il tratto singolare di Bourdieu (rispetto a Foucault), quello che gli ha permesso di fare questo lavoro, è la rabbia, in lui mai sopita, del ‘basso’ (del provinciale, del volgare, ecc.) di fronte all’‘alto’ (il borghese, il professore universitario, ecc.): «Nelle mie pulsioni originali c’è una forma di anti-intellettualismo, di esasperazione di fronte all’esibizionismo, al narcisismo, alla irresponsabilità intellettuale [...] Gli intellettuali si sopravvalutano come individui [perché] si sottovalutano come collettività»132, cioè come gruppo che esercita uno storico, benché ineffettuale potere di distinzione.

Ora, per colmo d’ironia, proprio il primato della conoscenza (rispetto a quello che in Foucault è il primato delle condotte e delle pratiche) spiega l’equivalenza posta da Bourdieu tra lotta politica e lotta cognitiva. Vi è in lui un nesso di ascendenza marxiana tra dominio, povertà e ignoranza: la politica può produrre dominazione solo nella misura in cui i cittadini, economicamente e culturalmente deprivati, sono costretti a scegliere tra rinuncia mediante astensione (antipolitica) e spossessamento mediante delega133. Ma la competenza, socialmente riconosciuta, richiesta per entrare a far parte della politica e per parlare il linguaggio politico, indica che la pratica politica non è affatto universalizzabile (come vorrebbe la linea Arendt-Habermas): costituisce una risorsa rara, un lusso, dunque struttura un campo di addetti che per instaurare il proprio potere, per valorizzare il proprio interesse al gioco, in una parola per rafforzare il proprio habitus, esclude automaticamente i profani.


La debolezza del diritto: il caso italiano

Nel sostenere, come scrive Boschetti, «il progresso dell’universale e la Realpolitik della ragione», conferendo al sapere una valenza politica propositiva, feconda e universalizzante, Bourdieu ha difeso, da intellettuale, il primato della cultura sulla stessa politica.134

Ora, nel difendere l’autonomia della cultura, Bourdieu si è moralmente scagliato contro la tendenza del mercato globale a trattarla come una merce qualunque, valutata unicamente con il criterio del profitto. Ma il nuovo fenomeno sociale che egli non ha analizzato, e che appare profondamente connesso alla sua genealogia del diritto, è la crisi della cultura, o meglio l’indebolimento del valore del capitale culturale in tutti i campi tradizionali del sapere – primo fra tutti, quello giuridico.

Bourdieu ha mostrato la dimensione simbolica del dominio, che garantisce la produzione e la conservazione delle diseguaglianze strutturali di una società (tra dominanti e dominati): la sua è un’economia politica della violenza simbolica, in cui il giudice è un dominante rispetto al giudiziabile, e un dominato rispetto allo stato, ma è soprattutto un piccolo-borghese che dissimula il proprio dominio dietro l’aura simbolico-sacrale del campo giuridico e del capitale culturale guadagnato attraverso l’istruzione. Perciò il sociologo francese ha significativamente oscillato tra lo smascheramento della forza ‘privata’ nascosta dietro il diritto e la ratio giuridica, ed il sogno kantiano dell’universalità di questa ratio. Per lui il campo giuridico è un teatro di lotte che hanno l’universale come ideale regolativo:

Se l’universale avanza, il suo avanzare dipende dal fatto che esistono microcosmi sociali i quali [...] sono il luogo di lotte vertenti sull’universale, e in cui agenti mossi [...] da un interesse particolare all’universale, alla ragione, alla verità, alla virtù, ricorrono ad armi che sono semplicemente le conquiste più universali delle lotte precedenti. È il caso del campo giuridico, luogo di lotte in cui sono in gioco poste ben lontane dall’essere tutte e sempre conformi al diritto, ma che, proprio quando mirano a trasformare le regole del diritto, [...] devono compiersi secondo tali regole. Così i giuristi, che, con un lavoro collettivo di vari secoli, hanno inventato lo stato, hanno potuto creare, veramente ex nihilo, tutto un insieme di concetti, di procedure, di procedimenti e di forme di organizzazione volte a servire l’interesse generale, il pubblico, la cosa pubblica, solo nella misura in cui facendo ciò facevano se stessi, in quanto detentori o depositari dei poteri associati all’esercizio della funzione pubblica, e potevano così assicurarsi una forma di appropriazione privata del servizio pubblico, fondata sull’istruzione e sul merito, e non più sulla nascita.135

In altri termini, il campo giuridico è storicamente legato a doppio filo al capitale culturale: se va in crisi questo, va in crisi quello.

Come abbiamo visto, il carattere leviatanico assunto dai giuristi nello stato moderno viene bilanciato dal ruolo sacerdotale del magistrato: «Il mistero della magia performativa [del diritto] affonda le sue radici nel mistero del ministero [...], attraverso il quale il rappresentante costituisce il gruppo stesso che lo ha costituito [...]. Gruppo fattosi uomo, egli rappresenta una persona fittizia che egli libera dallo stato di semplice aggregato di individui separati, permettendole di agire e di parlare, grazie a lui, ‘come un singolo uomo’. In cambio egli riceve il diritto a parlare e agire in nome del gruppo, a ‘essere’ il gruppo che incarna, a identificarsi nel ruolo cui egli dà ‘anima e corpo’, offendo così un corpo biologico a un organismo costituito. Status est magistratus, ‘Lo Stato, sono io’. Oppure, il che è poi lo stesso, il mondo è la mia rappresentazione»136. La morale ascetica del giudice è un ‘servizio’ che consacra alla funzione e dà senso all’esistenza: quella del magistrato è un’identità culturalmente superiore che obbliga al sacrificio per il bene dello stato. La magistratura si rappresenta come disinteressata e dedita al bene universale attraverso un «lungo lavoro di costruzione simbolica» della res publica, concepita quale luogo di tutela dell’interesse generale: il magistrato (come il politico nei paesi anglosassoni) è un uomo pubblico la cui specchiata moralità deve garantire la tutela di tale interesse. Se la moralità di uno solo si macchia o si corrompe, l’intero corpo della magistratura si sente automaticamente minacciato nella sua indipendenza (dalla politica e dall’economia) e nella sua consacrazione simbolica.

È solo sulla scorta di tali considerazioni genealogiche che può essere analizzata l’attuale metamorfosi del campo giuridico in Italia. Secondo Bourdieu, ogni campo – consideriamo in particolare il campo politico, quello giuridico e quello economico – tende ad autonomizzarsi rispetto all’altro, ma lo fa, direbbe Foucault, tramite una colonizzazione del campo avverso, oppure stringendo alleanze strategiche con un altro campo (= connivenza). Ad esempio, il campo politico può allearsi con quello economico per neutralizzare l’autonomia del campo giuridico (è il caso italiano dopo l’apparente terremoto di Mani Pulite137), mentre nei primi secoli della modernità i detentori del potere politico negli stati nazionali si sono serviti del potere giudiziario per assoggettare, o quanto meno controllare quello economico. Fino a pochi decenni fa vi era inoltre una sostanziale destinazione alla magistratura ed alla politica solo tra i membri delle classi agiate, il che non escludeva un’altrettanto sostanziale distinzione tra magistrati (conservatori) e politici (innovatori). Poi, qualcosa è cambiato:

il fatto che, almeno fino a un’epoca recente, la fortuna assicurata da una ricca origine fosse la condizione di quell’indipendenza economica e di quell’ethos ascetico che costituiscono in qualche modo gli habitus statutari di una professione votata al servizio di Stato, contribuisce a spiegare, con gli effetti propri della formazione professionale, che la neutralità proclamata e la repulsione altamente professata nei confronti della politica non escludono, al contrario, l’adesione all’ordine stabilito. (Un buon indizio dei valori del corpo giudiziario lo si può rintracciare nel fatto che i magistrati, benché molto poco portati a intervenire negli affari politici, siano stati, fra tutti i professionisti giuridici, e in particolar modo rispetto agli avvocati, quelli relativamente più numerosi nel firmare le petizioni contro la legge di liberalizzazione dell’aborto). Ma senza dubbio l’ampiezza e gli effetti di questa unanimità nella complicità tacita non possono misurarsi meglio che quando essa, col favore di una crisi economica e sociale del corpo legata a una ridefinizione del modo di riproduzione delle posizioni dominanti, viene a rompersi. Le lotte ingaggiate da coloro che, tra i nuovi venuti, né la posizione né le disposizioni rendono inclini ad accettare i presupposti della definizione tradizionale del ruolo, fanno venire alla luce una parte del fondamento rimosso del corpo: il patto di non-aggressione che univa il corpo ai dominanti.138

La fine dell’omogeneità socio-culturale dei magistrati, nonchè la rottura della connivenza tra politica (dominanti) e magistratura (dominati) all’interno di quel meta-campo che è lo stato, oltre che con i mutamenti della società alla fine degli anni Sessanta si spiega, in primo luogo, con una legge assolutamente generale dei campi: «la posizione di un campo autonomo all’interno di una gerarchia dipende in parte da quella della clientela corrispondente entro lo spazio sociale»139; quanto più alta è la posizione sociale del cliente (fino al caso-limite in cui essa sia, politicamente, la più alta possibile: è il caso, in Italia, di Silvio Berlusconi), tanto più bassa sarà quella del magistrato, per non parlare di quella dell’avvocato140. In secondo luogo, «in quanto custodi “ipocriti” della credenza nell’universale, i giuristi detengono una forza sociale estremamente rilevante. Ma essi sono presi nel loro stesso gioco, e con l’ambizione all’universalità costruiscono uno spazio dei possibili, dunque degli impossibili, uno spazio che si impone loro, che lo vogliano o meno, nella misura in cui intendano restare in seno al campo giuridico»141. In altri termini, quanto più i giudici hanno un interesse (economico, oltre che simbolico) a giocare il gioco giuridico, tanto più lo spazio dei loro ‘compossibili’ (come Leibniz amava definire la regione delle verità di fatto) rimane preso tra la vecchia ambizione all’universalità e la sua nuova, impossibile realizzazione nel sociale – tra l’interno del ‘corpo’ e l’‘esterno’ della società, in cui cresce il peso dell’opinione pubblica.

La cultura dello stato costituiva il terreno di coltura del giuridico, del suo habitus specifico e del suo lusso simbolico; ma, nella misura in cui lo stato appare, nella società tardo-capitalistica, completamente de-culturalizzato, la corporazione giuridica (come pure quella partitica) non ha molte alternative: o s’impoverisce a sua volta, oppure entra in conflitto con la politica, e lo fa sul terreno della “sfera pubblica”, ovvero scendendo nell’arena dello scontro mediatico142. Prendiamo ancora una volta il caso italiano: ostaggio di poteri populisti infra-culturali, dotati cioè di un capitale simbolico ed economico, ma non di un solido capitale culturale (per non parlare della scomparsa di quello ideologico), lo stato non può più svolgere per la magistratura il ruolo, altrettanto simbolico, di depositario del bene pubblico e custode dell’interesse generale. In queste condizioni, la continua, ossessiva difesa della vecchia separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), accompagnata dall’enunciazione meramente formale della democrazia parlamentare143, non fa che rimuovere (misconoscere, nei termini di Bourdieu) il continuo sconfinamento dell’un potere nell’altro, allo stesso modo in cui la cultura giuridica aveva nascosto la loro complicità genealogica: il radicarsi del politico nel giudiziario, e viceversa.

Pur essendo all’origine espressione di un interesse di parte, oggi in Italia i giudici si ergono a difensori etici della Costituzione144 e del popolo (il quale però tende a giudicare con derive qualunquistiche sia la politica che la magistratura: fa antipolitica), proprio quando, dopo quello politico, anche il potere simbolico della parola giuridica appare ormai delegittimato e – fatte le debite eccezioni, le quali vengono puntualmente e ferocemente attaccate dal politico – rischia di essere contaminato dall’ignoranza. I magistrati si atteggiano a sacerdoti dello stato nel momento in cui sia loro che lo stato (di cui incarnavano il potere scolastico: lo stato sono io, il suo umile servitore) patiscono la fine della funzione distintiva, originariamente piccolo-borghese, del capitale culturale. Essi non possono più considerare la politica culturalmente oltre che moralmente inferiore, in un’epoca in cui il linguaggio chiuso e gergale del diritto sembra aver perso la sua magia. Da questo punto di vista, la causa profonda dell’attacco della magistratura italiana contro quella parte politica che a sua volta aggredisce lamentando, con ottusi anacronismi ideologici, il giustizialismo delle ‘toghe rosse’, non va rinvenuta soltanto nella mediocre immoralità, nella rapacità economica e nella legiferazione auto-referenziale del populismo (che ha ulteriormente semplificato il ‘mistero del ministero’), ma anche nel complementare crollo del prestigio simbolico della magistratura stessa, che l’epoca del berlusconismo inaugura e compie attraverso il nuovo habitus televisivo del politico – colui che non vuol essere più giudiziabile nel medio della cultura, e con il quale perciò il popolo s’identifica145. Siamo cioè di fronte ad un completo rovesciamento dell’alleanza simbolico-morale tra opinione pubblica e magistratura che aveva caratterizzato, in Italia, la stagione di Mani Pulite.

Giudicare equivale a categorizzare solennemente, ad accusare pubblicamente, in piazza. Giudicare è produrre ciò che si designa146: il giudizio categorico d’identità è quello con cui la società, in quanto Dio, fa esistere e al contempo giudica l’individuo, il quale si sottopone al processo e così giustifica se stesso per essere ciò che è, col rischio di condanna. Il diritto, come la scuola147, giudica mediante «riti di istituzione», «capaci di dare almeno l’apparenza di un senso e di una ragione d’essere ad esseri che non hanno ragione di esistere: gli esseri umani; [...] e di strapparli così all’insignificanza»148. Tra questi esseri produttori di senso e di consenso, vi sono (oltre ai filosofi e agli insegnanti) gli stessi magistrati: sono loro i detentori per eccellenza dei riti di istituzione; coloro che nel processare, cioè nell’assolvere o condannare gli altri, giustificano se stessi e creano la propria identità: categorizzano su quella altrui149. In uno stato-nazione ben in salute, dove i processi si svolgono in tempi brevi (la famosa certezza della pena) e senza incidenti de-legittimanti, «la legittimità linguistica risiede precisamente nel fatto che i dominati [i profani esclusi dal sapere giuridico] sono sempre virtualmente giustiziabili dalla legge ufficiale, anche se trascorrono tutta la loro vita [...] al di fuori del suo raggio. In situazioni ufficiali essi sono condannati al silenzio o al discorso sregolato, spesso messo in evidenza anche dall’inchiesta linguistica»150. Il nesso simbolico tra lingua legittima (statale) ed inchiesta, fa funzionare lo stato in cui il magistrato parla come Dio: il giudiziabile crede alla sua divinità, crede alle “qualità morali” della persona del giudice, dunque obbedisce all’incantesimo delle sue parole. Allo stesso modo e per le stesse ragioni, fino a pochi decenni fa il cittadino si chiudeva nel «silenzio dell’incompetenza» e delegava a parlare il politico di professione151.

Ma, se Dio è morto, la crisi del potere di giudicare è profondamente connessa al tramonto dello stato-nazione e del capitale culturale trasmesso attraverso l’istituzione scolastica152; insieme alla spettacolarizzazione di ogni sorta di «discorso sregolato», ciò determina il rifiuto del giudizio, la sua nuova insensatezza. In un mondo socialmente sdivinizzato, la crisi della magia performativa del diritto appare genealogicamente legata alla crisi della cultura scritta, ed a quella nuova analfabetizzazione dei parlanti che va sotto il nome di ‘oralità secondaria’. Quando il saper parlare dell’avvocato – che fonda quello del politico – e/o il saper scrivere del magistrato (competenze simboliche, oltre che specificamente giuridiche) non sono più sentite dai giudiziabili come valori distintivi, il potere di giudicare s’indebolisce e viene facilmente colonizzato da altri poteri, primo fra tutti quello economico. La superiorità della cultura giuridica subisce l’attacco di coloro che ne rifiutano l’autorevolezza, oltre che l’autorità, e che mirano ad una totale subordinazione del campo giuridico a quello politico, rivendicando la non-giustiziabilità del politico-sovrano, nonchè del popolo ch’egli governa, ormai, nel medio dell’ignoranza153. La complicità dei dominati nei confronti dei dominanti non avviene più nel segno della sottomissione al capitale culturale come segno di superiorità simbolica, ma nel segno dell’identificazione più o meno inconscia con il detentore di un enorme capitale economico-simbolico trasferito, per infusione magica, nel campo politico attraverso il mito del voto popolare. In tale contesto, ciò che appare alla frutta – ad esempio in occasione dei concorsi pubblici, nella delicata fase del reclutamento – è la valutazione selettiva legata all’uso competente e rigoroso della lingua (effetto di rarità distintiva) da parte del magistrato o dell’uomo di legge, la quale s’imponeva come criterio discriminante anche al politico, o a chiunque volesse imporsi nel campo politico.154

Il corpo della magistratura batte in ritirata, o si difende dagli attacchi, o attacca esso stesso (spesso entrando in politica155), quando tende a perdere, un po’ come accade alla Chiesa cattolica, il ‘mistero del ministero’, cioè la delega tacita e immemoriale, che i cittadini-fedeli gli avevano affidato, a giudicare in nome e per conto di quel corpo simbolico che è lo stato. Se il Vaticano invade quasi istericamente il campo della politica italiana, è anche perchè si sente ormai estromesso dai comportamenti reali dei cattolici; e lo fa in un Paese nel quale la moralità dei politici non è più sottoposta, da almeno trent’anni, al giudizio etico-popolare che invece continua a vigere nei Paesi anglosassoni.156

Se i cittadini-consumatori non si riconoscono più nello stato come agenzia formativa di identità sociale; se essi rifiutano o disprezzano, insieme alla “virtù” dei magistrati ed alla loro presunta capacità di “controllo” sulla politica157, i segni simbolici del potere di giudicare (non solo la toga, la postura e il tono della voce, cioè l’hexis corporea del magistrato, ma anche la sua residua cultura ‘superiore’), allora il politico, o meglio la sua immagine, non è più giudiziabile, e il popolo è con lui158. Pur restando proceduralmente democratici, i cittadini provano in senso vendicativo, e spesso nella forma mediatica della comparazione, il piacere di condannare: giudicando i giudici, essi possono ad ogni istante sprofondare nel pre-diritto, fino ad aggredire fisicamente i magistrati – come accade nell’inquietante scena finale del film di Nanni Moretti Il Caimano (2006).


Note con rimando automatico al testo

1 P. Bourdieu, La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la recherce en sciences sociales», 64, 1986, pp. 3-19; Id., Habitus, code et codification, in «Actes de la recherce en sciences sociales», 64, 1986, pp. 40-44 (ripreso da Bourdieu in Choses dites, Minuit, Paris 1987); Id., Le juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, in Normes juridiques et régulation sociale, a cura di F. Chazel e J. Commaille, Lgdj, Paris 1991, pp. 95-99. I testi verranno citati direttamente nella traduzione italiana di Gianvito Brindisi.

2 Cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Per una critica sociale del gusto, a cura di M. Santoro, Il Mulino, Bologna 1983.

3 E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano 1990, vol. I, pp. 1340-41.

4 Cfr. P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 43: «La forza della forma, questa vis formae di cui parlavano gli antichi, è quella forza propriamente simbolica che permette alla forza di esercitarsi pienamente facendosi misconoscere in quanto forza, e facendosi riconoscere, approvare, accettare presentandosi sotto le spoglie dell’universalità – quella della ragione o della morale».

5 Cfr. M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi politici, a cura di A. Fontana e P. Pasquino, Einaudi, Torino 1977, p. 36: «Facciamo un po’ l’analisi genealogica dei dotti – di colui che colleziona i fatti e ne tiene accuratamente il registro o di colui che dimostra e confuta; la loro Herkunft svelerà presto le scartoffie del cancelliere, o le arringhe dell’avvocato [...] nella loro attenzione apparentemente disinteressata, nel loro “puro” attaccamento all’obiettività».

6 Pur avendola abbandonata per l’indagine di tipo etno-antropologico, Bourdieu non ha mai rinnegato la propria formazione filosofica; inoltre la sua “sociologia della sociologia” appare molto vicina, nei suoi tratti genealogici, alla sociologia storica di Weber ed a quella processuale di Norbert Elias, più volte citato ne La distinzione. Sebbene abbia preso le distanze da entrambi, egli ha riconosciuto 1) che Elias ha saputo storicizzare le ‘tecniche del corpo’ di Mauss (cfr. M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino 2000, pp. 383-409) facendo sociologia storica dell’habitus, e 2) che Weber è stato «il ricercatore che più si è avvicinato alla nozione di campo, pur senza arrivare mai a formularla» (cfr. P. Bourdieu, Proposta politica. Andare a sinistra oggi, a cura di L. Cuozzo, Castelvecchi, Roma 2005, p. 25). Per Bourdieu come per Elias, esistono ed agiscono solo gli individui, non le strutture che li producono; tuttavia l’inter-esse al gioco di campo e la violenza simbolica intrappolano il fattore individuale, l’elemento realmente agente, producendo l’incorporazione della struttura come habitus. Quello di Bourdieu è dunque uno strutturalismo storico-processuale (genetico, per usare le sue stesse parole), che dello strutturalismo classico, alla Lévi-Strauss, condanna l’astoricità e l’incapacità di cogliere l’elemento individuale della costruzione identitaria, ma conserva il modo ‘scientifico’ di presentare i risultati teorici della ricerca sul campo, molto simile a quello usato in Le strutture elementari della parentela.

7 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 1981; H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987.

8 Cfr. P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 41: la forma del giudizio è «tutto ciò che permette a ciascuno di noi di distinguere quel che altri confondono, di operare una diacrisis, un giudizio che separa» Sul termine “giudiziabile” cfr. M. Foucault, La ridefinizione del giudiziabile (“la célibataire”, autunno 2004, pp. 149-152, già in «Justice», 115, 1987, pp. 36-39), in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, :duepunti edizioni, Palermo 2009, pp. 37-50.

9 Sull’apofantizzazione del giudizio in Aristotele (Metafisica, 1, 980a), cfr. M. Foucault, La volonté de savoir. Corso al Collège de France 1970-71 , inedito custodito presso l’archivio del Collège de France. Qui Foucault mostra come nella forma neutra, contemplativa e disinteressata dell’enunciato secondo la coppia vero/falso, venga completamente occultata la dimensione evenemenziale e agonica della verità del giudizio, il suo essere posta in gioco di una lotta, dunque risultato di una comparazione tra poteri, non frutto di un supposto ‘naturale’ desiderio di sapere. Per un’analisi del corso rinvio a G. Brindisi, Materiali per una genealogia del potere di giudicare. Una lettura della relazione diritto-verità in Michel Foucault, tesi di dottorato inedita, disponibile in formato pdf sul sito www.fedoa.unina.it/view/people.

10 Cfr. M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 286; cfr. M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972. Dall’intervista rilasciata da Bourdieu nel luglio 1993 all’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche (www.filosofia.rai.it): «In altri termini, attraverso delle strutture linguistiche che sono, allo stesso tempo, strutture corporali, si inculcano delle categorie di percezione, di apprezzamento, di valutazione, e allo stesso tempo dei principi di azione sui quali si basano le azioni, le ingiunzioni simboliche: le ingiunzioni del sistema di insegnamento, dell’ordine maschile, ecc.».

11 P. Bourdieu, La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, cit., p. 12.

12 Cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, a cura di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1998.

13 P. Pourdieu, Lezione sulla lezione, a cura di C. A. Bonadies, Marietti, Genova 1991, p. 40.

14 Ivi, p. 15.

15 Cfr. P. Bourdieu, Ce que parler veut dire. L’économie des échanges linguistiques, Fayard, Paris 1982, trad. it. di S. Massari, La parola e il potere. L’economia degli scambi linguistici, Guida, Napoli 1988.

16 Cfr. F. de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, a cura di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2005.

17 Cfr. ivi, p. 79.

18 Su ciò cfr. anche P. Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, a cura di D. Orati, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 119: nella filosofia francese degli anni sessanta, la linguistica «è stata eretta a modello di tutte le scienze umane», e di «operazioni filosofiche come quella di Foucault». Ciò che egli rimprovera al Foucault di Le parole e le cose e dell’Archeologia del sapere, è di aver usato la linguistica per creare, insieme a Barthes (che aveva usato la semiologia) e a Derrida (che aveva usato la grammatologia), l’effetto filosofico “-logia”, di aver cioè trattato troppo filosoficamente le scienze sociali.

19 P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 11.

20 Ivi, p. 14.

21 Cfr. ivi, p. 21.

22 Ivi, pp. 12-13.

23 Ivi, p. 17.

24 Ivi, p. 23.

25 Ivi, pp. 58-59. Cfr. P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 43: «La violenza simbolica, la cui forma per eccellenza è senz’altro il diritto, è una violenza che si esercita, per così dire, nelle forme, ponendo delle forme»; Qui Bourdieu non può non aver in mente la valenza ontologica che il verbo setzen (porre) riveste nella filosofia tedesca, da Fichte a Hegel.

26 Sul monopolio statale della violenza cfr. M. Weber, La politica come professione, in Id., Scritti politici, a cura di A. Bolaffi, Donzelli, Roma 1998, p. 178; sulla violenza divina cfr. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in Id., Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino 1982, pp. 179-203.

27 P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 41.

28 P. Bourdieu, La force du droit. Eléments pour une sociologie du champ juridique, cit., p. 16.

29 P. Bourdieu, Habitus, code et codification, cit., p. 43.

30 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 100.

31 Ivi, p. 101.

32 Ivi, p. 110.

33 L’effetto politico del potere simbolico esercitato dal, e nel, campo giuridico, «consiste precisamente nell’imposizione di sistemi di classificazione politici sotto le apparenze legittime di tassonomie [...] giuridiche [...]. I sistemi simbolici devono la loro forza proprio al fatto che i rapporti di forza che vi si esprimono si manifestano soltanto nella forma irriconoscibile dei rapporti di senso (spostamento)». (A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, Marsilio, Padova 2003, p. 126). Le relazioni di potere vengono cioè traslate, nel campo giuridico, dall’“energetico” al “cibernetico”, dal non-discorsivo al discorsivo, dalla forza alla forma, producendo sia misconoscimento che credenza: creando senso sociale, ordine simbolico ma anche, in termini foucaultiani, governamentalità. Su questo concetto cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège France 1977-78, a cura di P. Napoli, Feltrinelli, Milano 2005.

34 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 3.

35 Ivi, p. 4.

36 Ivi, p. 15.

37 Grazie alla competenza logica sfoggiata dai professionisti e inaccessibile ai profani, «il campo giuridico riduce allo stato di clienti dei professionisti coloro che, accettando di entrarvi, rinunciano tacitamente a gestire da sé il loro conflitto (attraverso il ricorso alla forza o a un arbitro non ufficiale, o ancora attraverso la ricerca diretta di una soluzione amichevole)» (ivi, p. 11).

38 In quanto il campo è un luogo di rapporti di forza – non solo di senso – e di lotte mirate a trasformarlo, esso è il luogo di un cambiamento costante. Ma il campo giuridico, come quello religioso, è più lento nel trasformarsi: resiste di più al flusso della storia. Una delle principali differenze tra il linguaggio giuridico e quello religioso, che pure hanno in comune la magia performativa e liturgica, sta invece nella «polisemia» del secondo (cfr. P. Bourdieu, La parola e potere, cit., p. 15) contrapposta all’univocità ed al rigore definitorio del primo. La ragione sta in ciò: che la religione (attraverso la predica) deve parlare a tutti gli inferiori per includerli nell’ecclesia, mentre il diritto deve parlare a tutti per escluderli da sé come profani, e al contempo giudicarli.

39 Cfr. P. Bourdieu, Le champ religieux dans le champ de manipulation symbolique, in Les noveaux clercs, a cura di G. Vincent, Labor e Fides, Genève 1985, pp. 255-261.

40 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 9.

41 Cfr. P. Bourdieu, Le juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, cit., pp. 96-97: «Ma per ottenere questo effetto di legittimazione vi è un prezzo da pagare, e i giuristi sono in qualche modo le prime vittime della loro creazione giuridica. Si tratta del senso dell’illusio: i giuristi non inducono la credenza se non nella misura in cui essi stessi vi credono. Se contribuiscono all’influenza giuridica, è perché essi stessi sono presi in trappola, segnatamente al termine di tutto il lavoro di acquisizione della credenza specifica nel valore della cultura giuridica, lavoro che è estremamente importante per comprendere l’effetto esercitato dal diritto non solo su quanti sono sottoposti a giudizio, ma anche su coloro che producono questo stesso effetto». Sull’ascetica giudiziaria cfr. anche A. Garapon, Del giudicare. Saggio sul rituale giudiziario, a cura di D. Bifulco, Cortina, Milano 2007, da me recensito in questo numero di Kainos.

42 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 7.

43 Cfr. L’astuzia del potere. Pierre Bourdieu e la politica democratica, a cura di L. Wacquant, Ombre Corte, Verona 2005, p. 9 (dall’Introduzione dello stesso Wacquant).

44 Ivi, p. 24. «Questa differenziazione – scrive Wacquant – inaugurava lo spazio al cui interno i giuristi legati allo stato dinastico gradualmente ricavarono per se stessi uno spazio di autonomia e crearono il ‘campo burocratico’, cioè quel complesso di istituzioni pubbliche impersonali, preposte ufficialmente al servizio della cittadinanza e alla rivendicazione dell’autorità di nominare e classificare – per esempio attribuendo titoli (per la socio-dicea positiva) o imponendo marchi penali (per la socio-dicea negativa)» (ibidem). Sembra cioè che lo stato moderno abbia ‘prodotto’ il campo giuridico perché lo aiutasse a diventare una «banca centrale di capitale simbolico» in grado di garantire «ogni atto d’autorità»; ma, come vedremo, il processo di autonomizzazione del giuridico si è svolto in modo molto più complesso, anche perché lo stato non coincide affatto con un potere monolitico dispensatore di autorità: esiste sempre un conflitto tra potere giuridico, potere economico, potere assistenziale, ecc., cioè tra i vari sotto-campi burocratici dello stato, nonché tra i vari habitus che questi producono, incorporati negli individui che sono, a loro volta, da essi prodotti.

45 Contenuto in L’astuzia del potere, cit., pp. 37-62.

46 Emblematico appare, in questo contesto, il caso inglese: con la Glorious Revolution (1688-89), il Parlamento avocava a sé il diritto di indicare il sovrano d’Inghilterra.

47 Cfr. P. Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato, in L’astuzia del potere, cit., p. 48.

48 Cfr. ivi, p. 50.

49 Ivi, pp. 54-55.

50 Ivi, p. 55.

51 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 13.

52 Cfr. P. Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato, in L’astuzia del potere, cit., pp. 55-56.

53 Cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 195: «Lo stato è il luogo per eccellenza dell’imposizione del nomos, come principio ufficiale ed efficiente di costruzione del mondo, al pari per esempio di tutti gli atti di consacrazione e di omologazione che ratificano, legalizzano, legittimano, regolarizzano situazioni o atti di unione (matrimonio, ecc.) o di separazione (divorzio, ecc.), così promossi dallo stato di puro fatto contingente, ufficioso, addirittura dissimulato (una ‘relazione’), allo statuto di fatto ufficiale, conosciuto e riconosciuto da tutti, pubblicato e pubblico. La forma per eccellenza del potere simbolico di costruzione socialmente istituito e ufficialmente riconosciuto è l’autorità giuridica, in quanto il diritto è l’oggettivazione della visione dominante riconosciuta come legittima o, se si preferisce, della visione del mondo legittima, dell’orto-dossia, garantita dallo stato. Una manifestazione esemplare di questo potere statale di consacrazione dell’ordine stabilito è il verdetto, esercizio legittimo del potere di dire ciò che è e di far esistere ciò che enuncia, in una constatazione performativa universalmente riconosciuta (in contrapposizione all’insulto, per esesmpio) [...] lo stato riserva ai suoi agenti direttamente incaricati questo potere di distribuzione e redistribuzione legittima dell’identità.»

54 Cfr. P. Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato, in L’astuzia del potere, cit., p. 59.

55 Ciò spiega il godimento provato nell’esercitare il potere in nome e per conto dello stato: il piacere di giudicare che, in termini foucaultiani, fa pendant con quello di sorvegliare e punire: cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993.

56 P. Bourdieu, Dalla casa del re alla ragion di Stato, in L’astuzia del potere, cit., p. 53.

57 Cfr. ivi, p. 57.

58 Cfr. P. Bourdieu, Proposta politica, cit., p. 27 (nota 26).

59 Ivi, p. 11.

60 Cfr. ivi, p. 13. Su ciò cfr. anche il fondamentale saggio di Bourdieu Il mistero del ministero. Dalle volontà particolari alla volontà generale, trad. it. in L’astuzia del potere, cit., pp. 63-72.

61 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 65.

62 Sul completo assorbimento, in Kafka, del sacro da parte della Legge, e sul carattere mediocre, piccolo-borghese di tale Legge, rimando a W. Benjamin, Franz Kafka. Per il decimo anniversario della morte, in Id., Angelus Novus, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, pp. 275-305, nonché al mio La redenzione ineffettuale. Walter Benjamin e il messianismo moderno, La Città del Sole, Napoli 2001, cap. 6.

63 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 250.

64 Ivi, p. 239.

65 Ivi, p. 241. L’avvocato ad esempio, che in quanto competente nel gioco «manipola le speranze e le attese di K.» (ibidem), appare perfettamente connivente con l’assurdità del tribunale che schiaccia l’inferiorità del giudiziabile. Allo stesso modo, il verdetto che Josef K. attende è quello degli altri (cfr. ivi, pp. 248 e sg.), ma essi lo condannano a morire come un cane: l’uomo non vede mai i giudici, l’opacità massiva della società, ma ne subisce la sentenza.

66 Cfr. D. Eribon, Michel Foucault , Flammarion, Paris 1989, p. 351. Nel breve articolo commemorativo Non chiedetemi chi sono. Un profilo di Michel Foucault, trad. it. “L’indice”, n. 1, 1984, pp. 4-5, Bourdieu sembra leggere l’opera nietzscheana e genealogica di Foucault, la sua storia ‘politica’ delle scienze, in chiave marxiana attraverso l’asse dominanti-dominati, ma soprattutto afferma di aver avuto con lui un progetto in comune interrotto dalla morte: un dialogo sull’esperienza intellettuale di entrambi, da inserire in un libro collettivo sulla «storia del discorso socialista». Sulla convergenza politica dei due cfr. infra, nota 94.

67 Cfr. P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 7, 38, 48, 90, 108, 164, 182, 187, 194.

68 P. Bourdieu, Risposte, cit., p. 152.

69 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 185. Qui Bourdieu si riferisce alle epistemi foucaultiane; su ciò cfr. anche Risposte, cit., p. 214, nota 13.

70 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 147-153.

71 Dall’intervista del luglio 1993 all’Enciclopedia multimediale, cit. Sul concetto biopolitico di popolazione cfr. M. Foucault, ‘Bisogna difendere la società’. Corso al Collège de France 1976, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998, mentre sul governo della popolazione cfr. il già citato corso dedicato a Sicurezza, territorio, popolazione.

72 Cfr. M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica, in H.L. Dreyfus - P. Rabinow, La ricerca di Michel Foucault. Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Milano 1989, p. 244.

73 P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, cit., p. 9.

74 P. Bourdieu, Risposte, cit., pp. 121-122.

75 Cfr. ad es. questo passo di La force du droit, cit., p. 14: «Smettendo di chiedersi se il potere venga dall’alto o dal basso, se l’elaborazione del diritto e la sua trasformazione siano il prodotto di un “movimento” dei costumi verso la regola, delle pratiche collettive verso le codificazioni giuridiche, o, all’inverso, delle forme e delle formule giuridiche verso le pratiche che esse informano, bisogna prendere in considerazione l’insieme delle relazioni oggettive tra il campo giuridico, luogo di relazioni complesse che obbedisce a una logica relativamente autonoma, e il campo del potere, nonché, per il tramite di questo, il campo sociale nel suo insieme. È all’interno di questo universo di relazioni che si definiscono i mezzi, i fini e gli effetti specifici assegnati all’azione giuridica». I primi due corsivi sono miei, per indicare i riferimenti polemici a Foucault.

76 P. Bourdieu, Le juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, cit., p. 95.

77 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 13.

78 Cfr. ad es. ivi, p. 17; 16: «l’effetto di universalizzazione, che si potrebbe anche chiamare effetto di normalizzazione, per conferire la sua piena efficacia pratica alla costrizione giuridica va a raddoppiare l’effetto di autorità sociale già esercitato dalla cultura legittima e dai suoi detentori [...]. E ci si può stupire del fatto che la riflessione sui rapporti tra il normale e il patologico lasci così poco spazio all’effetto proprio del diritto: strumento di normalizzazione per eccellenza, esso, in quanto discorso intrinsecamente potente, e dotato di strumenti fisici atti ad assicurarne il rispetto, è in grado di passare, con il tempo, dallo stato di ortodossia, credenza giusta esplicitamente enunciata come dover-essere, allo stato di doxa, adesione immediata a ciò che va da sé, al normale, come compimento della norma che nel compiersi si abolisce in quanto tale». «È fuori dubbio che l’istituzione giuridica contribuisce universalmente a imporre una rappresentazione della normalità rispetto alla quale tutte le pratiche differenti tendono ad apparire devianti, anomiche, perfino anormali, patologiche (specialmente quando la ‘medicalizzazione’ concorre a giustificare la ‘giuridicizzazione’)». Il rapporto rinvenuto da Bourdieu tra medicalizzazione e giuridicizzazione appare inverso ma perfettamente complementare rispetto a quello tra potere giudiziario e potere psichiatrico analizzato da Foucault in un celebre corso: cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, a cura di J. Lagrange e M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2004.

79 Cfr. P. Bourdieu, La force du droit, cit., pp. 11-12: «Sono i professionisti a produrre il bisogno dei loro stessi servizi, traducendo nel linguaggio del diritto, e costituendoli così in problemi giuridici, dei problemi espressi nel linguaggio ordinario, e proponendo una valutazione anticipata delle possibilità di riuscita e delle conseguenze delle differenti strategie. E non vi è alcun dubbio che, nel loro lavoro di costruzione delle dispute, essi siano guidati dai loro interessi finanziari, come pure dalle loro disposizioni etiche o politiche, principio di affinità socialmente fondate con i loro clienti (si sa, ad esempio, che molti lawyers scoraggiano le legittime rivendicazioni dei clienti contro le grandi imprese, in particolar modo in materia di consumo), e infine, soprattutto, dai loro interessi più specifici, quelli che si definiscono nelle loro relazioni oggettive con gli altri specialisti, e che si attualizzano, ad esempio, nell’aula stessa del tribunale (dando luogo a delle negoziazioni esplicite o implicite) [...]. Insomma, via via che un campo (in questo caso un sotto-campo) si costituisce, si innesca un processo di rafforzamento circolare: ogni “progresso” in direzione della “giuridicizzazione” di una dimensione della pratica genera nuovi “bisogni giuridici”, dunque nuovi interessi giuridici, in coloro che, essendo in possesso della competenza specificamente richiesta (il diritto del lavoro, all’occorrenza), trovano lì un nuovo mercato; questi, così intervenendo, determinano un potenziamento del formalismo giuridico delle procedure, contribuendo a rafforzare il bisogno dei loro servizi e dei loro prodotti, e a determinare l’esclusione di fatto dei semplici profani, costretti a ricorrere ai consigli dei professionisti, condannati a prendere a poco a poco il posto di attori e di convenuti, e in tal modo convertiti in semplici giustiziabili». Un discorso analogo è stato fatto da Foucault riguardo all’estensione extra-manicomiale del potere psichiatrico grazie alla diffusione sociale della funzione-psy ed all’uso di un linguaggio superiore con cui inferiorizzare il cliente-paziente. Su ciò cfr. sempre M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, cit., ma anche Id., Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-75, Feltrinelli, Milano 2000.

80 Cfr. sprt. il giudizio dell’allievo di Bourdieu, L. Wacquant, espresso nella già citata Introduzione a L’astuzia del potere e nel saggio Il potere simbolico del governo nella “nobiltà di stato”, ivi, pp. 143-160.

81 L. Wacquant, Introduzione a L’astuzia del potere, cit., p. 13.

82 Cfr. La parola e il potere, testo già analizzato all’inizio di questo saggio.

83 Cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., e Id., Bisogna difendere la società, cit. Wacquant, che stranamente cita Foucault dalla traduzione inglese (M. Foucault, Power/Knowledge, Pantheon, New York 1980, cit. in L’astuzia del potere, cit., p. 158, nota 28) sembra ignorare anche la celebre intenzione foucaultiana di trattare il potere ‘passando all’esterno dello stato’ (cfr. M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, cit., p. 102).

84 L. Wacquant, Il potere simbolico del governo nella “nobiltà di stato”, in L’astuzia del potere, cit., p. 154.

85 Cfr. Poteri e strategie. L’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, a cura di P. Dalla Vigna, Mimesis, Milano 1994

86 L. Wacquant, Il potere simbolico del governo nella “nobiltà di stato”, in L’astuzia del potere, cit., p. 154: «Bourdieu condivide con Foucault l’ipotesi che il potere non sia un’entità sostanziale che gli individui o i gruppi possiedono, ma un effetto di specifiche relazioni sociali iscritte nella stessa costituzione dei soggetti che lo esercitano o ne sono oggetto. Analogamente, concorda con Foucault nel ritenere che il potere assuma una molteplicità di sembianze (cioè le diverse forme del capitale), le quali a loro volta possono attivare una varietà di strategie di resistenza, sottrazione o auto-conservazione [...] infine, anche Bourdieu ritiene che l’esercizio del potere non necessiti di un’intenzionalità consapevole o di un’attività decisionale esplicita, e che non sia un’istanza meramente repressiva, ma anche ‘produttiva’ di nuove relazioni e realtà».

87 Ivi, p. 155.

88 Ibidem.

89 Oltre al già citato L’ordine del discorso, e a La volontè de savoir. Corso al Collège de France 1970-71, inedito, cfr. Id., La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2. 1971-77, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1997, pp. 83-165.

90 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 186 e sg.; sulla verità-evento distinta dalla verità come conoscenza constativa, cfr. Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, cit., pp. 211 e sg.; e Id., L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France 1981-82, a cura di M. Bertani, Feltrinelli Milano 2003, pp. 293-325.

91 Cfr. M. Foucault, Mal faire dire vrai. Fonction de l’aveu en justice (1981), inedito, ma anche Id., Du gouvernement des vivants. Corso al Collège de France 1980, inedito, e Id., Le gouvernement de soi et des autres. Corso al Collège de France 1983, inedito; tutti e tre sono custoditi all’I.M.E.C. (Institut Mémoires de l’Éditions Contemporaines, Caen, Francia).

92 P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, cit., p. 16.

93 Ivi, p. 20.

94 È lo stesso Bourdieu a chiarirlo nel suo ricordo di Foucault: cfr. P. Bourdieu, Non chiedetemi chi sono. Un profilo di Michel Foucault, cit., p. 5: «Questo soggetto, che la vecchia filosofia metteva agli inizi, è il prodotto dell’assoggettamento [...]. Il progetto critico, la genealogia storica del soggetto dominato, è un progetto al tempo stesso scientifico e politico [...teso alla] possibilità di produrre [...] un soggetto di cui saremmo appena appena i soggetti [...] la teoria è una pratica politica [...]: la politica della verità, che costituisce la funzione propria dell’intellettuale, si compie nel lavoro per scoprire e dichiarare la verità della politica. Così il desiderio (perverso) di conoscere la verità del potere diventa irriducibile avversario del desiderio di potere».

95 Cfr. A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, cit., pp. 22 e sg.

96 In Bourdieu «la storicizzazione della ragione non porta al relativismo» (ivi, p. 88). Secondo Boschetti, sia Bourdieu che Foucault hanno comunque espresso una sfida contro «i principi di classificazione del campo intellettuale» (ivi, p. 25), ma Bourdieu sarebbe stato più radicale di Foucault, che, pur essendo più gauchiste, «non ha rinunciato allo status prestigioso del filosofo, ma ha inventato una maniera eretica di continuare a fare filosofia, combinandola con la storia, l’epistemologia, i riferimenti al pantheon degli autori trasgressivi (Sade, Artaud, Blanchot, Bataille), senza sobbarcarsi l’onere della ricerca empirica» (ibidem). Anche qui manca evidentemente la conoscenza dello sterminato materiale di ricerca socio-storica costituito dagli undici corsi tenuti da Foucault al Collège de France.

97 Perciò, se volessimo indicare un’immaginaria, ideale gradazione che porti il pensiero dalla filosofia alla sociologia, potremo mettere in ordine i nomi di Deleuze, Foucault e Bourdieu: mentre il primo è rimasto quasi completamente all’interno del campo filosofico, Foucault ha realizzato una genealogia della pratica filosofica (cfr. ad esempio il già citato corso del 1981-82 su L’ermeneutica del soggetto, cit., ma anche Discorso e verità nella Grecia antica, a cura di R. Bodei, Donzelli, Roma 1996) oltre che del diritto; infine Bourdieu ha svolto una sociologica genealogica dei campi intellettuali, tra cui quello filosofico.

98 Cfr. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2001, pp. 85-109.

99 Ivi, p. 87.

100 Cfr. M. Foucault, L’archeologia del sapere, a cura di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano 1998.

101 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 79 e sg.

102 Da tale punto di vista, de Certeau ha sottovalutato il carattere gerarchizzante della disciplina, il cui linguaggio razionalizzante rende certo sostituibili, nel Panopticon, sorveglianti e sorvegliati, ma non per questo azzera le differenze di rango, i privilegi di superiorità e le posizioni di inferiorità che ogni individuo può rivestire nella macchina disciplinare. Tanto più che, come lo stesso de Certeau non manca di riconoscere, la disciplina ha ben presto elaborato un discorso sulle sue stesse pratiche (il cui esempio principe resta il sistema scolastico di valutazione, ovvero l’esame analizzato da Foucault sempre in Sorvegliare e punire, cit., pp. 202-212).

103 Cfr. invece M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 90.

104 Ivi, p. 91.

105 Si pensi all’analisi della casa cabila o dei matrimoni nel bearnese: cfr. P. Bourdieu, Per una teoria della pratica, con tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano 2003; Id., Le bal des célibataires. Crise de la société paysanne en Béarn, Seuil, Paris 2002.

106 Cfr. M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 105.

107 Cfr. ivi, p. 106.

108 Cfr. P. Bourdieu, La distinzione, cit., pp. 405-464.

109 M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, cit., p. 109.

110 Ivi, p. 105.

111 P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 117.

112 Ivi, p. 119.

113 Cfr. i due scritti di Foucault intitolati Che cos’è l’illuminismo?, in Archivio Foucault 3. 1978-1985, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 217-232; 253-261.

114 Su ciò mi permetto di rimandare al mio Il lusso della differenza. Ipotesi sul processo di soggettivazione, Filema, Napoli 2006.

115 Il censor latino, secondo Courcelle, detiene il potere statutario e costituzionale del dire autorizzato, è cioè «responsabile dell’operazione tecnica – census, censimento – che consiste nel classificare i cittadini a seconda dei loro beni, è il soggetto di un giudizio che è più vicino a quello del giudice che non a quello del dotto» (P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, cit., p. 11), e da cui consegue, secondo Dumezil, la stima pubblica, sociale, che ogni cittadino riceve; ma anche il dotto giudica e prova piacere nel collocare ognuno nella sua posizione gerarchica in seno alla società, nel mentre lo esclude, appunto, dalla società dei dotti.

116 Cfr. ivi, p. 29.

117 Ivi, p. 34.

118 P. Bourdieu, Il mondo sociale mi riesce sopportabile perché posso arrabbiarmi, a cura di S. Chiodi, Nottetempo, Roma 2004, p. 18.

119 Ivi, p. 28.

120 In ciò, come anche nella limitazione della libertà d’invenzione del nuovo a partire dal vecchio, così come viene esposta nella teoria dell’habitus, Bourdieu resta hegeliano suo malgrado: solo l’intellettuale che viene alla fine del divenire storico della verità, può comprendere la verità del suo processo di costruzione.

121 P. Bourdieu, Lezione sulla lezione, cit., p. 12.

122 Dall’intervista del luglio 1993 all’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, cit., corsivo mio. La nozione di habitus come derivata dall’hexis è già in M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. 389.

123 P. Bourdieu, Il mondo sociale mi riesce sopportabile perché posso arrabbiarmi, cit., p. 10.

124 Cfr. ivi, pp. 31 e sg.

125 Ivi, p. 43.

126 Cfr. ivi, p. 29.

127 Ivi, p. 46.

128 Su ciò cfr. P. Bourdieu, Risposte, cit., p. 37.

129 P. Bourdieu, Il mondo sociale mi riesce sopportabile perché posso arrabbiarmi, cit., p. 38.

130 Cfr. l’esempio con cui Bourdieu illustra la propria posizione: quando a John Cage è stato chiesto: ‘perché fa musica?’, il compositore ha risposto: ‘per impedire agli altri di farlo!’; «ma è paranoico!», gli risponde P. Casanova; cfr, ivi, p. 39.

131 Ivi, p. 40.

132 Ivi, p. 43.

133 P. Bourdieu, Proposta politica, cit., p. 15, nota 4.

134 «Si è visto in questo fatto, a torto, una contraddizione rispetto all’accanimento con cui Bourdieu ha incessantemente smascherato» il potere simbolico degli intellettuali, fondato sul suo stesso misconoscimento. «Lo si è accusato di cadere nel ‘razzismo dell’intelligenza’ che aveva sempre deprecato [...] Se si considera il modo in cui Bourdieu ha analizzato nella sua opera la posizione, i poteri e le funzioni degli intellettuali, si capisce perché, invece, ritenga fondamentale il loro apporto. Essi detengono le competenze – il sapere, la capacità di analizzare, di formulare e di esplicitare – che sono indispensabili per un movimento politico, in particolare per un movimento che punti a trasformare la società. Inoltre la ‘difesa dell’universale’ è una dimensione costitutiva del personaggio dell’intellettuale, quale si è configurato storicamente». A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, cit., p.92.

135 P. Bourdieu, Meditazioni pascaliane, cit., p. 130. Ecco perché la magia performativa del diritto presuppone, come prezzo della sua efficacia, la finzione etico-politica dell’universalità: «la prudenza estrema dei giuristi [...] deriva dal fatto che essi non possono dimenticare che ogni atto giuridico contribuisce a fare il diritto creando un precedente e che essi non cessano in qualche modo di legarsi da soli le mani con le loro decisioni e in particolare con quel tanto di razionalità universale con cui devono rivestirli [...] questo monopolio dell’universale può essere ottenuto solo pagando il prezzo di una sottomissione (almeno apparente) di coloro che lo detengono alle ragioni dell’universalità, quindi a una rappresentazione universalista del dominio». Ivi, p. 131.

136 P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 81.

137 Sulla peculiare indipendenza della magistratura italiana dall’esecutivo (rispetto al modello anglosassone), sull’espansione del potere giudiziario nel nostro Paese con il conseguente ruolo politico di ‘opposizione’ svolto dalla magistratura e l’investitura simbolico-morale ricevuta dall’opinione pubblica nella lotta al terrorismo, alla mafia e infine alla corruzione (rispettivamente negli anni Settanta-Ottanta-Novanta), cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Roma-Bari 1998, in part. pp. 67-91.

138 P. Bourdieu, La force du droit, cit., p. 15. Sul diverso reclutamento socio-culturale, sulla politicizzazione e sul ‘movimentismo’ della magistratura italiana a partire dal Sessantotto, cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 75 e sg.

139 P. Bourdieu, Le juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, cit., p. 97.

140 Per cui alla «nervosa condizione di guerra aperta» tra politica e magistratura è subentrata in Italia, in alcuni casi, una «lussuosa condizione di servitù coperta»: cfr. A Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., p. 5.

141 P. Bourdieu, Le juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, cit., p. 99.

142 Illuminanti, sebbene riferite ancora a Mani Pulite, sono a questo proposito le riflessioni sul riconoscimento pubblico tributato ai giudici, svolte da A. Pizzorno ne Il potere dei giudici, cit., pp. 79 e sg. Ed esemplare ai fini del nostro discorso, per comprendere il mutamento intervenuto rispetto a quella stagione politica italiana, è la trappola mediatica in cui si sono trovati di recente i magistrati Clementina Forleo e Luigi De Magistris.

143 Sulla vanificazione dell’espressione della volontà popolare attraverso il voto, cioè sullo svuotamento del concetto di rappresentanza politica, cfr. sempre A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., p. 48.

144 Anche perchè è proprio la Carta Costituzionale italiana, caso unico nelle democrazie parlamentari occidentali, a garantire alla magistratura la sua indipendenza dall’esecutivo: su ciò cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., p. 67-68.

145 Sulla nuova, pericolosa ma sottovolatutata bêtise popolare rimando al mio Pensami, stupido! La filosofia come terapia dell’idiozia, Mimesis, Milano 2008.

146 Cfr. P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 101.

147 L’esame, ad esempio, istituisce l’identità dello scolaro come giudiziabile, ne giustifica l’eccellenza o ne condanna l’inferiorità alla norma scolastica: cfr. sempre M. Foucault, Sorvegliare e punire, cit., pp. 202-212. Sulla sociologia dell’educazione cfr. anche, naturalmente, i lavori di Bourdieu e J. C. Passeron: I delfini e La riproduzione. Per una teoria dei sistemi d’insegnamento, entrambi pubblicati in Italia da Guaraldi, Bologna 2006.

148 P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 107.

149 Cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 16-17: «La garanzia dell’imparzialità viene ottenuta [...] con l’applicazione di procedure stabilite dall’ordinamento giuridico stesso, garantito a sua volta dall’autorità dello Stato, e quindi dal consenso che la popolazione gli dà. [...] È quindi il consenso nei confronti dello Stato a fondare il consenso per la decisione che prenderà il giudice».

150 P. Bourdieu, La parola e il potere, cit., p. 53.

151 Su ciò cfr. P. Bourdieu, La distinzione, cit., pp. 422-23 e 440-41.

152 Nella sua funzione originariamente standardizzante e universalizzante, «la lingua ufficiale è legata allo Stato. [...] Nessuno è tenuto a ignorare la legge linguistica che il suo corpo di giuristi, grammatici, agenti di imposizione e di controllo, e maestri investiti del potere di sottoporre universalmente all’esame [...] alla sanzione giuridica del titolo scolastico l’uso linguistico dei soggetti parlanti [...] Il codice, nel senso di segni convenzionali che regolano la lingua scritta, riconosociuta come lingua corretta, in opposizione alla lingua parlata [...], implicitamente considerata inferiore, acquista forza di legge attraverso il sistema di insegnamento» (ivi, pp. 22-23; 26).

153 Sull’incompetenza della popolazione nel giudicare l’operato dei politici, oltre all’incompetenza degli stessi politici, cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 49-50. Più del 50% della popolazione italiana sembra ormai incapace di comprendere e rielaborare un articolo di fondo di un giornale, come documentato già diversi anni fa da Tullio De Mauro, ed ignora quasi totalmente la Carta Costituzionale.

154 Mentre fino a pochi decenni fa la maggior parte dei politici aveva fatto studi universitari, spesso di tipo giuridico o umanistico – il che conferiva al loro discorso «le caratteristiche formali necessarie a produrre un effetto di ufficialità e legittimità» e li separava dalla maggioranza degli elettori privi dello stesso rapporto di familiarità con la cultura e il linguaggio –, il ‘nuovo populismo’ personalista, venditore di se stesso come bene simbolico, ha portato nel campo politico «personaggi che non hanno un passato di professionisti della politica». Si tratta di politici diversi da quelli tradizionali, molto simili ai loro elettori, che «perciò li trovano credibili come rappresentanti della volontà dei profani di riappropriarsi della politica e del potere sullo stato, mettendo in discussione l’autonomia del campo politico. Uno dei segreti fondamentali della forza di questi homines novi consiste, paradossalmente, nella mancanza dei requisiti specifici che, nella tradizione consolidata del campo politico, definiscono la competenza» (cfr. A. Boschetti, La rivoluzione simbolica di Pierre Bourdieu, cit., p. 81). È chiaro che, una volta colonizzato il campo politico, costoro si dedicheranno alla delegittimazione e/o all’asservimento economico del campo tradizionalmente più legato al capitale culturale: quello giuridico, e, più in generale, alla distruzione della cultura come segno di distinzione sociale.

155 Esemplare in tal senso, sempre in Italia, è la figura (tragica) di Antonio Di Pietro: dopo che la sua ‘immagine’ era stata violentemente attaccata dai politici, l’ex magistrato più rappresentativo di Mani Pulite, per sopravvivere a quella stagione e continuare a ricevere un “riconoscimento pubblico”, è diventato un politico dalla parola incerta, a cui però si aggrappa quella residua parte di ‘popolo’ che considera ancora giudiziabili – e giustiziabili – i detentori del potere.

156 Sull’“ethics in government” negli Stati Uniti cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 55-56.

157 Cfr. A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 62-63; pp. 72-73.

158 Sui rischi del personalismo e di una scelta politica fatta esclusivamente sulla base di immagini mediatiche, dunque sulla caduta verticale del livello cognitivo dell’elettorato italiano, cfr. sempre A. Pizzorno, Il potere dei giudici, cit., pp. 54-55.


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