sotto giudizio
RICERCHE


Dare giudizi in tempo di crisi.
Su senso comune e discorso legittimo


di Salvatore Prinzi



Nevicava storia, e non tutti erano fuori a bagnarsi...

Bernard Malamud, L’uomo di Kiev


Un tardo pomeriggio, inizio anni ‘60. Franco Fortini è alla scrivania, traducendo Brecht. Fuori un temporale picchia sui tetti; dentro, una «pagina secca», «versi di cemento e di vetro» che trattengono «grida e piaghe». Tutt’intorno, la storia: dallo strazio della guerra agli anni dopo, quando la vicenda umana sembra bloccata; oppure va avanti, ma non per cambiare. Nel pomeriggio di Fortini, le parole di Brecht muoiono, quella voce non dice più. Perché ormai ogni cosa ha un’apparenza di normalità:

Gli oppressi
    sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
    parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
    credo di non sapere più di chi è la colpa
(1).

Fra passività e incoscienza degli uni, sicurezza e impunità degli altri, il dominio è impersonale, invisibile, un eloquio quasi indolore. C’è sì qualcosa che non torna, ma la storia si trascina, ripete l’identico in modo differente, ci svia: nell’inganno siamo soli, privi di direzione. E, quel che è peggio, incapaci di fare il primo passo: individuare i colpevoli.

Qualcosa però resta: «Scrivi mi dico, odia/chi con dolcezza guida al niente». Odia un potere fedele solo a se stesso, quel potere che morbidamente avvolge e tiene. Scrivi come un’arma, un programma di denuncia, una battaglia di senso, un tentativo duro e disperato, forte e fragile. Non per spiegare le ragioni, ma per trovarle, non per mettere in prosa un’idea ordinata e chiusa, ma per aggrapparti in un mondo dinamico e sconvolgente. Con una rabbia motivata e paziente, che non fa sconti a nessuno: «Fra quelli dei nemici/scrivi anche il tuo nome».

Il temporale finisce. All’improvviso. Non certo perché abbiamo trovato il verso salvifico: «La poesia/non muta nulla». È solo un assalto che ci restituisce lo stato dell’ingiustizia, la geografia della miseria. Non ci sono certezze né vie di fuga. C’è solo un’ostinazione e una contrarietà, un sentiero per ritrovarsi, fra vittime e carnefici, un modo per iniziare: «Nulla è sicuro, ma scrivi».


Traducendo Brecht siamo già al cuore del nostro problema. L’esempio di Fortini è infatti la rappresentazione tragica, in una precisa vicenda di vita, del nesso crisi-giudizio. Di fronte a ciò che travaglia la sua epoca, all’indecisione collettiva che è sempre isolamento e pena del singolo, Fortini si propone di scrivere e di tradurre, di rifare partizioni, di indicare i responsabili. Nella temperie storica, di cui il temporale è solo debole imitazione, vuole provare nello stesso tempo a uscire e ripararsi, insomma a stabilirsi. Rinnovando la parola, cominciando a fare nomi. Cominciando a giudicare.

È appunto quello che si proverà a fare in queste pagine, un poco più analitiche, passando per il potere e la sua dissimulazione, le sue crisi, le sue reazioni, la sua violenza più o meno visibile, le sentenze che lo sostengono, verso altri giudizi possibili... Forse non si arriverà a nulla: se la scrittura di un saggio, più che lo svolgimento di una conclusione già acquisita, è il racconto del suo inizio, dei suoi motivi e dei suoi tentativi, la questione sarà di situarsi, comprendere criticamente una posizione, e distinguerla, cercando di provocare una decisione.

«Nulla è sicuro», dunque. Siamo ancora alle antitesi per una sintesi che pare di là da venire.


***


1. Che ci sia un’intima affinità fra crisi e giudizio, che quest’affinità riposi finanche nella memoria della parola, è cosa nota. Krìsis deriva da krìnein: separare, distinguere, decidere. Giudicare. Quindi, per quanto nel suo utilizzo quotidiano ‘crisi’ evochi una situazione di stasi, di arresto, su cui grava una minaccia incommensurabile, il termine serba anche un’altra accezione: il rimando ad un’occasione, ad una prova, ad un nuovo inizio. Questa dimensione ulteriore della parola è stata conservata dal pensiero cristiano, che nella crisi, dell’individuo o del suo tempo, vede una possibilità di rinascita spirituale, una chiamata trascendente, un’interrogazione divina. Critica è la frattura in una quotidianità ridotta a mero commercio con il mondo, non più paga di beni terreni; radicale è dunque il ritorno alla nostra contingenza, urgente il bisogno di Altro. E decisivo è il giudizio che si porta su di sé. Superare la crisi qui vuol dire trovare risposte ultime, aderire in pieno, affidarsi.

Ma è stato l’Illuminismo a prendere pienamente coscienza della positività della crisi: essa è innanzitutto novità, un di più di consapevolezza, spunto di una riflessione, appunto, critica. Una riflessione che lavori cioè intorno ai limiti che l’esperienza, anche la più dura e paralizzante, ci indica, e ci disponga con più maturità al giudizio, smantellando l’ordine antico che si è rivelato fasullo, verso una ragionevole ricomposizione di ciò che in questo momento è diviso. L’Illuminismo scopre dunque che alla crisi appartiene sia lo smisurato del suo sorgere che la tensione ad una misura, sia la revoca dell’autorità che l’istituzione della scelta. È un ripiegamento che è simultaneamente apertura a nuove indagini e prospettive. Gli elementi propositivi, che ci proiettano oltre la difficoltà, non sono successivi o esterni alla crisi, ma già dentro di essa. D’altronde non potrebbe essere altrimenti: con la diffusione della modernità – formula stringata per riferire dell’affermazione del capitalismo su scala mondiale, della sua imposizione/ricezione/attivazione sul piano locale, del progressivo e contrastato mutamento antropologico nei costumi e nelle istituzioni, nella laicizzazione delle forme di vita e di pensiero qualcosa si è ormai messo in moto dappertutto. Le risposte alla crisi, quelle linee di giudizi che ne disegnano il crinale, sono immanenti al tessuto storico, sono in un confronto serrato con ciò che deve venire.

Gli eredi dell’Illuminismo cercano appunto di interpretare quest’intrinseca dinamicità, che anche quando si arresta non si arresta mai per davvero. Così Marx elabora una teoria della crisi come elemento strutturale del modo di produzione capitalista, che lo accompagna dal suo sorgere e ne segna le fasi di sviluppo. Si tratta di un fenomeno ogni volta diverso, eppure sempre identico nella sua essenza: unità contraddittoria di dissoluzione e rigenerazione di forme. È morte di capitale obsoleto, dell’organizzazione materiale e della divisione del lavoro che gli è connessa, e contemporaneamente concentrazione, nascita di capitali nuovi, con ripercussioni enormi su tutti gli apparati sociali di riproduzione della vita. Nella crisi, infatti, c’è già la trasformazione, una tensione mai lineare, che mentre recede configura il nuovo, vincente, assetto economico e politico. Non è una malattia, o una saltuaria distruzione di uomini e merci: è invece un fattore ciclico sempre più ricorrente, indice di un’incapacità di valorizzazione, di una saturazione degli spazi e di una riduzione dei margini di profitto. Una condizione che rappresenta sempre di più l’unico modo per il capitale di esistere, accrescersi, dominare. Così, in un mondo capovolto, dove le esigenze reali e i bisogni concreti sono dipendenti da un’astrazione e da una potenza anonima, il patologico diventa fisiologico. Per questo motivo la crisi è occasione di un giudizio ultimo, e apertura di un’altra storia, davvero nuova.

Davanti a tale acquisizione teorica, che ha come corollario la possibilità/necessità pratica di ristabilire un rapporto corretto fra sviluppo e coscienza, il pensiero liberale in genere ha deviato, tendendo a minimizzare il ruolo delle crisi, guardando al loro lato transitorio e conciliandosi con la loro inevitabilità. Alfiere della velocità e del cambiamento, ma allo stesso tempo bisognoso di fondarsi nell’imperituro dello sfruttamento e delle gerarchie, fedele agli animal spirits e ai principi del mercato, che nonostante la Storia non passeranno mai, il pensiero liberale mira a tranquillizzare, a ridimensionare un’eventuale critica. Per questo pensiero una crisi è certo una bella seccatura, ma passerà: nel frattempo stringiamoci a corte (variante protezionista) o predisponiamo pacchetti minimi di sostegno per riattivare i consumi e riconquistare il credito (variante liberal). In ogni caso, questo shock non indicherà l’elaborazione di chissà quali giudizi sull’eterno presente del capitale.

Eppure, nonostante l’aprioristica reductio ad unum delle sue potenzialità storiche, una crisi non sarà per questo più semplice da gestire. Si sbaglierebbe infatti se si pensasse che in quest’ottica pacificata la facoltà del giudizio scompaia: al contrario, essa si rafforza e si moltiplicano i suoi effetti. Il rimosso di un giudizio non pronunciabile e fondamentale, attenta a quell’equilibrio in movimento così faticosamente istituito, e la reazione, come in tutte le malattie ormai sedimentate sul fondo della vita, sarà compulsiva. Avvitandosi su se stesso, il tempo e lo spazio del capitale si frantumano in molteplici ambiti che richiedono altrettanti interventi, differenziazioni, aggiustamenti. Si tratta allora di mantenere tutta l’ambiguità della krisis, stimolando la ricerca di soluzioni, i comportamenti attivi, schiudendo le opportunità e le decisioni più favorevoli alla ripresa, ma allo stesso tempo blindando qualsiasi radicale messa in questione. Ciò implica operare una distinzione, all’interno dello scambio sociale, fra l’economico e il politico. Nel primo caso bisogna incentivare la libertà individuale, facendo appello alle risorse e all’inventiva di ognuno, allargando gli orizzonti, ricreando un clima di fiducia. Qui la crisi è dinamica, snodo, riconfigurazione, possibilità di investimento. Qui, ciò che fa più paura non è l’interruzione della normale quotidianità, ma l’immobilità (2).

Ma cosa accade nel campo del politico? Anche qui bisogna muoversi velocemente, ma proprio perché nulla cambi. Ecco rafforzarsi il controllo (diretto, ovvero coercitivo e repressivo, e preventivo, ovvero informativo e comunicativo), la deviazione dell’attenzione pubblica su aspetti secondari, l’appello mitico, e persino la mobilitazione contro i possibili mutamenti, identificati come fonte di insicurezza. Una volta scartata la carta della cesura e della discontinuità assoluta, la risposta al trauma passa insomma per la capacità di garantire stabilità, ancorandosi a dispositivi collaudati (come usi e tradizioni), rinsaldando la connotazione identitaria e l’appartenenza comunitaria. Magari individuando un nemico che possa prestarsi ad assorbire paure e angosce, e che con il suo semplice esistere strutturi la nostra identità altrimenti vuota o, peggio, schizofrenica. In un gioco di distinzione e ricomposizione, di orientamento funzionale dei conflitti, si tratta infatti di stare tutti insieme, ma contro qualcuno. È precisamente la costituzione di questo ossimoro, la sua rifrazione nell’ordine del discorso e dell’azione politica, che ora si vuole provare ad indagare.


2. L’etimologia ci ha mostrato quale ampia trama semantica si svolga fra crisi e giudizio, una trama tutta pratica e patica, tessuta sempre prima, nella spuria continuità della vita. Se separazione, distinzione, decisione, sono i passaggi attraverso i quali una prassi non problematizzata si fa elaborazione cosciente, è solo perché essi suppongono sempre altro: l’insieme pieno e confuso di esperienze e di percezioni in cui vengono ritagliati gli enunciati che hanno presunzione di verità. Per capire allora cosa significhi dare giudizi in tempo di crisi, bisogna tentare una ricognizione su come i singoli giudizi si formino, in quale contatto con la realtà si radichino e poi quali conseguenze concrete abbiano, cioè quali discorsi autorizzino e quali pratiche legittimino. In questo senso parlare del giudizio vuol dire innanzitutto fare un passo indietro, tematizzare il pre-giudizio.

Come hanno ben mostrato, in modi diversi ma complementari, la riflessione fenomenologica e quella psicanalitica, il pregiudizio è quel campo su cui si strutturano ed entrano in relazione le nostre diverse ‘prese’ sul mondo. È quel territorio sempre conteso e aperto a possibili interferenze, non interrogato, fatto di sguardi intercettati, accolti o respinti, di mimesi o di rifiuti, crocevia di significati in competizione fra loro, in cui una percezione sempre produttiva e un immaginario perturbante elaborano le rappresentazioni. È quindi uno spazio che si consuma nel primo contatto con la cosa; un paesaggio sempre disposto all’alterazione, dove aleggiano affermazioni immotivate, le cui conseguenze non importa vengano assunte. Il pregiudizio è così testimonianza di una presenza al mondo che cade sempre dietro le pretese della verità, di una presenza che parla per sé.

Tuttavia, se si tiene conto delle effettive pratiche di vita e della dinamica di scambi in cui l’individuo è già da sempre inserito, si vede come il pregiudizio non sia imputabile al singolo, ma appartenga in modo eminente ad un contesto che è prima di tutto condiviso, e sviluppato con altri. Da questo punto di vista è la categoria di senso comune che può offrire una sorta di trascrizione in termini sociali e politici del pregiudizio.

Questa categoria – che acquisisce pregnanza filosofica soprattutto con Kant, a indicare un atteggiamento generale, l’opinione media degli uomini, persino un organo condiviso di ricezione della realtà – può essere utilizzata, sulla scorta di Gramsci, per significare una «concezione del mondo» sparsa e implicita di un gruppo sociale, una concezione che non è mai sviluppata e congrua (3). Proprio come il pregiudizio individuale non assurge ad elaborazione sistematica, il senso comune si ‘limita’ a raccogliere acriticamente un complesso di enunciati, ascrivibili ad un consesso umano determinato nel tempo e nello spazio. Seguendo Gramsci, possiamo quindi relativizzare questa categoria sia diacronicamente, lungo il corso della Storia (quello che era senso comune oggi non lo è più), che sincronicamente (in una medesima società possono coesistere e confliggere diversi sensi comuni), e indicare mediante il suo uso un ‘pacchetto’ di idee e di discorsi validi intersoggettivamente:

Ogni strato sociale ha il suo “senso comune” e il suo “buon senso”, che sono in fondo la concezione della vita e dell’uomo più diffusa [...] Il senso comune non è qualcosa di irrigidito e di immobile, ma si trasforma continuamente, arricchendosi di nozioni scientifiche, e di opinioni filosofiche entrate nel costume. Il “senso comune” è il folclore della filosofia e sta sempre in mezzo tra il folclore vero e proprio [...] e la filosofia, la scienza, l’economia degli scienziati. Il senso comune crea il futuro folclore, cioè una fase relativamente irrigidita delle conoscenze popolari di un certo tempo e luogo (4).

È quindi tramite un articolato sistema di connessioni e di rimbalzi che il senso comune prende forma, configurandosi come una variante, una declinazione popolare dell’ideologia: luogo di ricezione per lo più passiva rispetto all’elaborazione condotta dai vari «gruppi dirigenti» o «intellettuali». I produttori di cultura, che allestiscono l’ambiente del pregiudizio, sono infatti quei «ceti» più o meno organici alle classi, che esercitano «funzioni organizzative in senso lato, sia nel campo della produzione che in quello amministrativo-politico» (5). Rispetto a tali «ceti», il senso comune fa segnare ritardi e momenti anche infimi di elaborazione, perché si tratta di ciò che è implicito nell’autocomprensione del gruppo sociale, il suo livello minimo, anche nel senso di minimo comun denominatore. Con il senso comune siamo insomma prima dell’intenzione, dove la gran parte dei soggetti è non solo agita, ma definita, nel suo modo d’essere individuale e collettivo. Esprimendosi in una serie di enunciati che costituiscono soprattutto una retorica di conferma dell’appartenenza ad un gruppo, più che un’effettiva conoscenza della propria situazione, il senso comune rappresenta una prima ‘messa in forma’, una sommaria codificazione del pregiudizio a livello sociale, attentamente seguita e indirizzata dai vari «gruppi dirigenti».

La relazione che il senso comune intrattiene con la dimensione politica è quindi incessante e dialettica. I pregiudizi diffusi, le affermazioni superficiali, sono presi in una circolarità che li vuole sia materiale disponibile per una riflessione più ‘elevata’, sia volgarizzazione di quella stessa riflessione, allo stesso tempo stimolo per un intervento direttivo e collante dal basso. In questa dinamica è proprio il giudizio, in particolare quello emesso da alcuni soggetti riconosciuti per prestigio o influenza, a poter rivendicare lo status di atto politico. Il giudizio catalizza cioè le opinioni fluttuanti e variabili, passa quindi in giudicato, diventa disponibile per un altro pregiudizio. Orientato da ciò che lo sottende, finisce per mettere capo ad una nuova configurazione, torna a quel reale da cui proviene proponendo un altro immaginario. È quindi un atto che, per quanto atteso, irrompe nella vita della società, sostanziando al suo interno una comunità che si riconosce in certi tratti e in certi valori. Un atto che è allo stesso tempo delimitante e produttivo, di significati e di azioni.

Infatti, proprio perché «il senso comune è un aggregato incomposto di concezioni filosofiche e vi si può trovare tutto ciò che si vuole» (6), la capacità del giudicante sta nel selezionare gli elementi che possono essere recuperati, semplificandoli e inserendoli in un quadro coerente, quanto più possibile adattato al proprio, principale, gruppo di riferimento. Non importa poi se questo quadro sia artificiale o non corrispondente al ‘vero’: il requisito è che sia immediatamente comprensibile al pubblico a cui si rivolge, che partecipi del medesimo ambiente vitale, che lo rinforzi nei confronti degli altri gruppi, proponendolo prima come visione del mondo accettabile, poi come patrimonio condiviso. Qui la facoltà del giudizio ha il compito di chiudere e di aprire uno spazio funzionale alle esigenze di un potere. In questo senso il giudizio è ciò che de-cide, ovvero che circoscrive; una visibilità che viene vissuta come punto all’ordine del giorno, effettivo problema, risorsa simbolica.

Ora, se l’enunciazione del giudizio permette la conferma del pregiudizio, lo incoraggia e lo orienta secondo l’interesse del locutore politico (e il giudizio si mostra allora come attività, intervento sulla vita e sul tessuto di relazioni di cui è fatta, organizzazione potenziale dell’intera società), quest’atto, per quanto resti confinato ad una dimensione discorsiva, non può non essere violento, visto che mira ad alterare lo stato delle cose, e sempre ingiustificato, perché si convalida esercitandosi. Si tratta certo di una violenza peculiare, che attiene alla capacità di imporre i termini in gioco, e imporli secondo l’accezione più favorevole al proprio progetto politico, proprio mentre le sue intenzioni recondite e i motivi profondi restano celati ai tanti. Una violenza che, per quanto diversa dall’aggressione fisica o dalla coercizione militare, le è pienamente solidale. Infatti, come ci dice Bourdieu,

i rapporti di forza non si riducono mai soltanto a meri rapporti di forza: ogni esercizio della forza è accompagnato da un discorso che mira a legittimare la forza di colui che la esercita; si può addirittura affermare che la particolarità di ogni rapporto di forza consiste nel dissimularsi come rapporto di forza e di esprimere tutta la sua forza soltanto nella misura in cui riesce a dissimularsi come tale (7).

I giudizi formano appunto questa costellazione discorsiva che mira a sostenere l’esercizio della forza e contemporaneamente a farlo sparire. Ma proprio per questo devono far dimenticare la loro origine, nascondere il loro carattere singolare. Facendosi schermo del si dice, devono distruggersi come presa di posizione separata, lavorando proprio a costruire una determinata opinione prima inesistente. In questo senso la verità del giudizio è presuntiva, non sta in un qualche riscontro oggettivo, adeguato alla realtà, ma nella sua capacità di essere accettata. Esso trova le sue ragioni solo a posteriori, quando riesce, quando genera consenso. Qui entra in gioco anche una certa performatività del giudizio: il suo primo effetto è quello di confermarsi. Bisogna infatti mostrare, al di là del contenuto, che si è in grado e si ha la forza per giudicare, che si rappresenta un orientamento possibile, che si ha il diritto (lo ius) per poterlo fare.

Per certi aspetti, infatti, lo spazio in cui accadono i fenomeni politici è creato dai fenomeni stessi, e la capacità del «dirigente» sta nel saper individuare i problemi, e farli vivere nella forma più favorevole alle soluzioni di cui dispone già. Ponendo a tutti la stessa domanda, il leader dà per scontato che esista un consenso sulle questioni che meritano di essere poste. Questo è lo sfondo che deve restare sempre ininterrogato, e sul quale si devono convogliare anche i più acerrimi contendenti. Poi, il modo di porre la domanda deve già suggerire una risposta, limitare il ventaglio delle possibili alternative, ometterne addirittura qualcuna, proporre la stessa opzione sotto formulazioni diverse. Così si possono captare le opinioni allo stato implicito nel proprio apparato di opinioni mobilitate e costituite.

È proprio a questo tipo di operazione che il giudizio si presta bene. Meno di un asserto scientifico, più di un semplice parere, non aspira alla Verità e nemmeno le è estranea: vuole solo dire qualcosa di vero per molti. Fingendo di constatare, può catalogare, aggregare e persino disciplinare, e avere così una funzione non soltanto tecnica, ma anche emotivamente coinvolgente. Ma se questa è la dinamica che sembra reggere l’attività del giudizio in tempi normali, che succede in tempi di crisi? Quale mutamento si produce nel senso comune, come si emettono giudizi nelle emergenze?


3. Finora abbiamo visto che, in ogni momento della vita di una società, esistono più ‘sensi comuni’ in competizione fra loro, e che la loro relazione forma quella che viene comunemente chiamata ‘opinione pubblica’ come sistema articolato di forze e tensioni – sia orizzontali (fra i diversi gruppi sociali, e fra i diversi gruppi dirigenti), sia verticali (fra le diverse basi e le rispettive dirigenze). Bisogna innanzitutto notare che

la situazione nella quale si forma l’opinione, particolarmente nei momenti di crisi, è la stessa; vale a dire che la gente si trova davanti a opinioni precostituite, opinioni sostenute da gruppi, opinioni tra le quali si deve scegliere perché si deve scegliere tra i gruppi. Questo è il principio dell’effetto di politicizzazione che provoca la crisi: si deve scegliere tra gruppi che si definiscono politicamente, ed esprimere, sempre di più, delle prese di posizione rispetto a principi esplicitamente politici (8).

Esiste dunque una continuità fra i tempi normali e i tempi di crisi, che sta nella combinazione di un sistema di preferenze profondamente inconscio, tendenza a una scelta che ci collochi, e complessi già costituiti di opinioni e valori. Ed anche in tempi di crisi la capacità del dirigente sta nel compiere uno studio delle disponibilità virtuali che non si sono ancora espresse sotto forma di discorso esplicito, selezionare quelle compatibili con i propri scopi e interpretarle in un giudizio sintetico. Ma c’è una differenza decisiva, rappresentata da qualcosa come una diversa temporalità del politico.

Infatti, mentre in tempi normali si tratta per lo più di amministrare la convivenza fra i diversi gruppi con le loro idee e pratiche di vita, ed ampi settori di pubblico solo parzialmente coinvolto dai vari agenti politici, una crisi rappresenta una precipitazione che investe il tessuto sociale disarticolandolo e ricomponendolo velocemente. Proprio in quanto problema e opportunità, essa muove il pubblico fino a quel momento indifferente verso una presa di posizione, e spinge gli agenti costantemente mobilitati a potenziare il loro impegno. In questo senso la crisi provoca una politicizzazione: di fronte a quello che appare un naufragio, ci si deve muovere, e a maggior ragione lo si deve fare perché tutti lo fanno. Ci si può afferrare a ciò che si trova a portata di mano, o dirigersi dove vanno gli altri; ciò non toglie che la propria sopravvivenza si rivela in qualche modo legata a un destino comune. Gli elementi cui si cerca di aggrapparsi sono appunto politici, fra i più resistenti, preparati nel tempo dai diversi agenti, i quali hanno tutto l’interesse a mettere a disposizione le loro risorse materiali e simboliche.

Insomma, sebbene i tempi normali siano solo relativamente pacifici (perché in realtà anche la stabilità del potere richiede un certo dinamismo: la capacità di prevedere, stimolare il proprio gruppo, erodere il consenso degli oppositori, sgombrare il proprio campo da eventuali contendenti...), i tempi di crisi vedono mutamenti rapidissimi, spostamenti repentini. In una situazione di estremo movimento, le oscillazioni risultano così varie, e una pregressa percezione del mondo così insostenibile, che si può verificare sia che i dirigenti si scollino dal loro gruppo sociale, sia che questo gli si stringa attorno. Inoltre, mentre in tempi normali le energie in gioco sono ben conosciute, e quindi chi detiene il potere può facilmente gestire il ‘vantaggio’, una crisi sembra tirare fuori risorse nascoste, e può così provocare una frattura nell’artificiosa unità del corpo sociale, un rafforzamento dell’opposizione, o persino l’emergere di alternative impreviste e potenzialmente dominanti. La capacità di chi si trova al potere (o lo guadagna in tale contesto) sta allora innanzitutto nel dominare questi processi molecolari, incrementandoli o rallentandoli, impedendo le aggregazioni totalmente contrarie, assorbendo i potenziali oppositori, catalizzando intorno a sé le energie sprigionate. Tanto che può essere addirittura politicamente vantaggioso provocare una crisi se si hanno tutti gli strumenti per governarla, mantenendo l’iniziativa, costringendo i propri nemici a venire allo scoperto quando sono ancora troppo deboli o in fase di riorganizzazione, approfittando dell’emergenza per scompaginare le loro fila.

Di tutto questo quell’enorme laboratorio storico che è stato il Novecento ci ha fornito diversi esempi. Forse il più clamoroso è quel fenomeno-limite del totalitarismo che – ferme restando le mancanze di questa categoria, più utile come descrizione sommaria che come nesso teorico (9) – può esemplificare bene cosa succede quando si tratta di gestire una crisi complessa, allo stesso tempo economica, politico-istituzionale, persino culturale e morale. Ciò che avvicina formalmente regimi, storie, pratiche altrimenti molto diverse fra loro, è infatti la modalità di ordinare lo spazio politico in un momento critico. Il controllo dei mezzi di comunicazione, l’uso della menzogna, la propaganda di Stato, la repressione poliziesca, la meticolosa programmazione di ogni aspetto della vita, non sono che le tecniche con cui si è provato a rispondere a quell’effetto di politicizzazione. Da questo punto di vista, gli agenti storici che si volevano risolutori di una situazione altrimenti bloccata e insostenibile, dovevano sia offrire una sponda a chi desiderava una rottura con l’ordine precedente, ormai screditato e improponibile, sia venire incontro alle esigenze di conservazione di una gran massa di persone incerte sul futuro, su cui pendeva la minaccia di un impoverimento materiale o di un’umiliazione simbolica. Per questo nel fenomeno totalitario è sempre visibile sia l’insistenza sulla discontinuità del proprio progetto, funzionale ad attirare a sé le energie più innovative e vogliose di cambiamento, sia il recupero di alcuni elementi del potere precedente (in particolar modo la tendenza a presentarsi come interpreti della volontà generale e/o del destino della nazione).

Ma in queste crisi storiche, e in queste risposte emblematiche, cosa ne è stato del giudizio? Lungi dall’essere soppressa, questa facoltà è stata potenziata nel suo tratto più manifesto, quello della sentenza. Il giudizio infatti resta – si pensi all’ambito giurisprudenziale – qualcosa di complessivo: per quanto singolare, esso tende ad esprimere la completezza di un avvenimento, a motivarlo da diversi punti di vista, facendosi carico anche di aspetti incidentali e dunque aprendosi al confronto con le diverse versioni del ‘fatto’. La sentenza è invece – in quanto partizione, Ur-teil – ciò che mette fine al processo, che attribuisce la colpa ed eroga la pena, che interrompe la continuità dell’avvenimento, vale a dire la possibilità di darne infinitamente ragione.

Cosa implica, dal punto di vista politico, quest’intensificazione, quest’impoverimento del giudizio in sentenza? Guardiamo ancora i regimi detti totalitari: questi cementavano il loro consenso proprio costruendo, dall’alto, una catena di equivalenze concettuali e simboliche fra attributi unanimemente detestabili e immagini repellenti (come quella del traditore o del codardo), e i gruppi sociali o politici che si volevano piegare o eliminare. Si assisteva così ad un’operazione di torsione del linguaggio che mirava a stravolgere il senso stesso delle parole, a riscrivere il vocabolario del discorso legittimo, a mettere fuori legge certi significanti per far obliare i significati e addomesticare il pensiero (10). Proprio perché l’ideologia non lavorava solo al livello dei contenuti evidenti, ma sulle stesse forme espressive, la modalità discorsiva della sentenza riusciva particolarmente efficace: come giudizio allo stadio terminale, sottratto alla verifica dell’argomentazione, come giudizio subito, ovvero imposto piuttosto che prodotto dal basso, la sentenza conformava o suscitava rigetto, edificava barriere precise fra chi era dentro e chi era fuori, invitava all’azione o la inibiva. Muovendosi su una logica dell’identità e del permesso/proibito, essa decideva in che modo bisognava rivolgersi al mondo, espandeva un’appartenenza inizialmente ristretta, la consolidava, confermando quello che si supponeva di essere, condannando il diverso e proscrivendo il simile, proprio perché prossimo e non uguale.

L’uso della sentenza sublimava così pulsioni inconfessabili, e liberava un piacere unico, a cui potevano facilmente partecipare tutti i cittadini. La sua espressione, volta a persuadere attraverso la reputazione di chi la emetteva, ripresa mimeticamente dai singoli, permetteva infatti di ridurre la complessità del reale in un tratto convincente e immediato, che chiudeva con le sue possibili varianti. Soprattutto nella versione estrema, quella della condanna, la sentenza era una presa totale sull’oggetto, la sua fissazione nella mutevolezza sincronica e diacronica delle prospettive. Una pratica necessaria in tempi che vedevano saltare sistemi di riferimento condivisi, e scricchiolare piani assiologici: bisognava censurare, ricoprire di disgusto, costringere all’espiazione il sottoposto, il soggetto reso debole, proprio per cementare la propria pienezza, per strutturare – e persino snaturare – la cooperazione sociale ai fini del potere.


4. È questo tratto, questa funzione socialmente identificante e assoggettante della sentenza, che inficia ancora oggi la facoltà del giudizio. Anche per noi uscire dalla crisi vuol dire scaricare le sue ansie, le sue tensioni, i suoi multiformi effetti contro un nemico che possa assorbirli (perché in qualche modo predisposto alla marginalità), e anestetizzare così un corpo sociale lacerato; vuol dire allo stesso tempo omogeneizzare e restringere lo spazio di agibilità politica dei progetti antagonisti (11). Qui la costruzione di immagini e la loro riproposizione ossessiva diventa un fattore decisivo: si tratta di utilizzare capillarmente i media per elaborare linguaggi semplici e diretti, colonizzare l’immaginario, determinare una versione condivisa e compatibile del ‘fatto’, semplificare l’insegnamento storico, avvalersi spregiudicatamente di scienziati e intellettuali cooptati come sorgenti di autorità, penetrando ogni ambito della vita, moderandolo (12).

In questo senso il dibattito attuale intorno al concetto di sicurezza, e i provvedimenti concreti in materia, esemplificano in maniera lampante il circolo vizioso fra pregiudizio e giudizio, l’uso sistematico della menzogna, la tendenza a uniformare il senso comune, l’utilizzo di alcune categorie come riferimento critico, liminale, della propria identità, la contrazione fra ciò che è dicibile e detto, accettabile e accettato. Infatti, proprio perché il patologico è diventato fisiologico, l’attuale crisi non è che un momento eminente delle varie emergenze ripetutesi negli ultimi decenni (13). Ne ha anche rappresentato la verifica, quando ormai parecchi dispositivi di allerta e di gestione erano stati predisposti. Il sistema politico-economico del capitalismo avanzato è infatti tale che trae dall’emergenza un requisito di governo, una ragion d’essere (14). Una volta che si presenta o si provoca un’emergenza, una volta che la situazione viene letta attraverso questa lente, si possono infatti saltare diverse procedure e interrogativi (di ordine giuridico, morale, etc.), e legittimare provvedimenti restrittivi, investendosi del ruolo di ‘salvatore’. Il paradigma della decisione libera e razionale, con la connessa ricerca di soluzioni alternative, viene così costantemente vanificato da correnti di emotività che affondano le possibilità di un serio ragionare. Se per il senso comune postmoderno nulla è vero, se in qualche modo tutto è possibile, allora bisogna trovare il modo di integrare i resti di queste esplosioni, farli tenere ad una qualche condotta che consenta la continuità del modo di produzione. La battaglia che deve essere combattuta, e ostentata, è dunque quella contro i fattori (anche solo apparentemente) destabilizzanti, e non può limitarsi a colpire esteriormente il fenomeno, ma deve tendere ad esprimere un giudizio censorio, che ne alteri il senso. Così, indipendentemente da quali siano i comportamenti devianti, la sicurezza interviene per prevenire, sanzionare, proporre modi di vita.

In questo stato pro-vocato di incertezza, qualsiasi diversità diventa perturbante, e deve essere riconosciuta e contrastata prima che riveli la sua essenza nociva. La militarizzazione delle strade e delle piazze – luoghi pubblici per eccellenza – è solo il risvolto palese di una volontà definitoria e di un controllo che innervano ogni aspetto del vivere civile. È anzi proprio il civis che sembra scomparire, nel momento in cui è arruolato e coinvolto, anche solo in quanto spia o delatore, in una guerra permanente contro una serie di nemici potenziali o reali, visibili come i ‘mostri’ di turno, o invisibili come i ‘terroristi’. Il linguaggio che accompagna queste pratiche violente è così connotato dallo spregio, soprattutto quando si sforza di essere politically correct: l’imbarazzo che accompagna l’espressione di un giudizio verso un superiore o un pari, verso qualcuno a cui possiamo essere in qualche modo accomunati, si trasforma in una mancanza di pudore e di rispetto, nella perdita di qualsiasi cautela di fronte alla distinzione e all’addebito di colpevolezza rivolto al soggetto inferiorizzato.

Ora, in questo contesto di crisi dell’universalismo, il bersaglio simbolico e materiale dell’operazione securitaria è rappresentato, più ancora che dal delinquente o dall’oppositore politico (entrambi elementi patogeni ed estranei rispetto ad un corpo sociale che si vuole ‘sano’), dal migrante. È infatti la sua mera presenza ad essere immediatamente ridotta ad un problema di ordine pubblico: l’attribuzione di reato alla condizione di clandestinità allude alla colpevolezza dell’esistenza stessa, ad una contrapposizione ontologica, a un peccato originale che autorizza qualsiasi giudizio. L’equazione fra l’essere-senza-documenti e l’essere-criminale, fra l’essere fuori-dalla-legge e l’essere fuorilegge, non rappresenta però un’abiezione della politica occidentale, quanto l’espressione meno ipocrita del suo fondamento. La minaccia è dappertutto, perché viene da nessuno: senza identità, o meglio: senza un’identità da noi attribuita o riconosciuta, il migrante può essere chiunque. Può quindi assorbire i bisogni di ostilità più disparati, costringendoci a rivelare chi siamo, illuminando porzioni del nostro inconscio sociale. È per questo che egli ci restituisce più d’ogni altro escluso, come per ribaltamento, l’assetto vero e intero della nostra società (15).

Proprio nell’emergenza immigrazione, mitologia sociale prodotta dal sentito dire, dalla notizia incontrollata, dalla sentenza offensiva (16), si sperimentano una serie di pratiche e di definizioni (come quella di criminalità, che ora va a indicare semplici infrazioni amministrative o stili di vita devianti, con il conseguente abbassamento della soglia di tolleranza verso l’altro in genere) che poi vengono impiegate in situazioni differenti. È il caso della tautologia della paura (17), ovvero della creazione di uno spazio discorsivo in cui ciò che tutti pensano diventa vero perché si assume che sia pensato da tutti. Qui l’opinione fa cose con le parole, non descrive il mondo ma lo costituisce con il suo carattere performativo. In questo caso, lo stesso del discorso è rappresentano da un messaggio allarmista dai forti contenuti razzisti e classisti; un messaggio che interpretato, modulato, attizzato dal politico, appare al pubblico come genuina espressione della vittima-cittadino. La logica democratica secondo cui i partiti si fanno carico di esprimere ciò che contiene il loro popolo di votanti si rovescia: è l’agente politico, meglio se camuffato da ‘uomo della strada’ o da esperto, che generalizza e fornisce uno status a quegli elementi del senso comune (e in particolare di un certo tipo di senso comune, quello piccolo-borghese (18)) che spingono verso la diffidenza, l’esclusione, meccanismi di oppressione e di violenza. Con un gesto quasi disinteressato, si assume ciò che è una conclusione discussa e tutta da verificare come presupposto. La sentenza sceglie così il suo terreno, si sottrae al dibattito, scivola e si inculca; toglie la possibilità di farsi contestare frontalmente, perché passa sempre oltre la sua origine. Da questo punto di vista, il dato più impressionante è la capacità di imporre il pregiudizio, formando il pubblico secondo i propri interessi, lavorando e sfiancando la massa finché non acconsenta ad un’immagine del mondo persino contraria alla propria esperienza empirica.

Sono i media a permettere che questa tautologia della paura raggiunga toni isterici e autorizzi provvedimenti sempre più duri. Il loro discorso, lungi dall’essere neutrale (sia perché essi appartengono direttamente a determinati gruppi di interesse, sia per la più generale funzione di riproduzione ideologica di cui sono incaricati), permette che ogni singolo evento, che gioca nel senso del panico e della conferma del potere, sia ripreso, filtrato, istantaneamente diffuso, esteso su scala nazionale, trasformato in versione oggettiva della realtà, informando così i differenti sensi comuni di una stessa cifra tonale.

Ma, a differenza che in passato, il media mainstream non ha solo il compito di coprire, negare, rinforzare la mentalità più retriva del pubblico; assume invece una funzione produttiva, che si pone al di là dell’obbedienza ad una ristretta direttiva politica, e lavora più generalmente nel senso della conservazione degli equilibri esistenti. Questa funzione è resa possibile dall’efficace utilizzo di protocolli integrati, dalla potente combinazione fra linguaggio, suoni e immagini che suggestiona l’utente atomizzato davanti allo schermo. La pervasività di questo sistema è garantita inoltre dall’intreccio fra la comunicazione di massa e la personalizzazione del messaggio, dalla possibilità per il singolo di parteciparvi. Non soltanto laddove il giornale era evocativo, il video è realizzativo – i migranti esposti nella sporcizia diventano imputabili della loro stessa miseria, la barca che porta il già-clandestino, è il clandestino stesso, trasfigurato in veicolo di problemi, malattie, barbarie; la sua angoscia si rovescia immediatamente nella nostra... Attraverso la visualità si instaurano processi metonimici che sfuggono al vaglio dell’argomentazione e, anche se accantoniamo l’interscambiabilità dei diversi programmi, si nota che la notizia assume sempre di più la fisionomia di una domanda rivolta allo spettatore, a cui viene lasciato il piacere di sfogarsi sui vari forum aperti dai quotidiani on line, o con telefonate, mail, sms. La sua funzione è ormai attiva, lo spettatore ha il compito di ‘colorare’ il messaggio apparentemente neutro della stampa, partecipando alla propaganda, rendendosi complice del falso.

Attraverso tutti questi sistemi si tenta di anticipare o deviare i conflitti partoriti dalla crisi verso il basso. Si disarmano gli avversari prima che venga il loro tempo, si riconduce ogni opposizione ad una posizione accettabile, facendo leva sulla responsabilità e l’unità nazionale. Così, dare giudizi in tempo di crisi vuol dire costruire, attraverso un sistema solidale di sentenze emesse dall’alto e fatte vivere in seno alla popolazione, uno spazio politico i cui assi fondativi sono la paura e l’esclusione, in cui i diversi attori di una supposta era ‘post-ideologica’ si fanno carico di legittimare alcuni discorsi, e squalificarne a priori altri.

***

Solo arrivati a questo punto possiamo capire quanto stiamo perdendo. Nella poesia di Fortini saremmo ancora alla prima strofa, al tempo degli oppressori, dello smarrimento e di un’atroce tranquillità in mezzo al temporale. Il fatto è che ancora una volta – una volta che per molti è per sempre – si è interrotta una regolarità, qualcosa si è spezzato, senza che però ne siano venuti fuori nuovi giudizi, altre prese sul mondo. «La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati» (19). Ci si tiene ad un involucro inutile perché non si saprebbe che altro fare, le sentenze proliferano, precise proibizioni a pensare delimitano lo spazio del discorso pubblico, la funzione di direzione del giudizio viene piegata al controllo, al mascheramento dei rapporti di potere, al dominio di ogni ambito di vita, per rendere possibile un noi, per rivolgerlo contro qualcuno.

Eppure, alla fine, pensare il giudizio in tempo di crisi non ci relega in un insopprimibile stato di subordinazione, ma ci consegna – oltre le retoriche di normalizzazione con i loro tratti compulsivi, oltre i pareri legittimi in quanto già legittimati – il senso di un’appropriazione. Sembra quasi di indovinare, sul rovescio dell’attualità, un altro modo di dare giudizi: un modo che è opportunità al passato, indicazione al futuro. Un modo che non ignora la violenza, ma per scommettere sugli uomini.

Quello che la la crisi mostra, infatti, è una condizione di interdipendenza, un alto potenziale di integrazione che è la nostra più vera esperienza, la traccia del nostro essere sociale. La crisi è la dannazione di questa vita plurale, è quest’unica vita a più entrate. È un essere presi nella stessa rete, dove però la sintonia, proprio come nella complicità sadomasochista, non annulla la distinzione fra carnefice e vittima. Lo stesso senso comune, e persino un certo immoralismo popolare, non sono che la comprensione minima di questa giunzione, di questa cooperazione sociale, rispetto a cui le sentenze del potere suonano mortificanti. Ma allora, senza che la possibilità coincida ipso facto con la realizzazione, bisogna notare che l’intervento disciplinante apre ulteriori contraddizioni, che alla lunga non può restare semplice comando senza sollecitare l’intelligenza, aggregare nuove forze, far sorgere nuove esigenze.

Mentre la sentenza conforma, muove da una piena adesione di sé a sé (e della realtà a sé), appare un giudizio che è scoperta dei propri limiti, denuncia del proprio come incompleto, nota di lavoro, allusione ad altre interpretazioni possibili. Quando nelle pratiche sociali comincia a vivere l’aspirazione ad un universalismo che preservi l’altro, allora la facoltà è già luogo di confronto e di emancipazione. È qualcosa che la filosofia sa dal tempo critico dell’Illuminismo:

Il “modo di pensare ampio”, l’apertura mentale, gioca un ruolo cruciale nella Critica del giudizio. Esso si realizza “paragonando il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizi possibili che con quelli effettivi, e ponendoci al posto di ciascuno di loro”. La facoltà da cui ciò è reso possibile si chiama immaginazione... Il pensiero critico è possibile solo là dove i punti di vista di tutti gli altri siano accessibili all’indagine. Quindi il pensiero critico, purtuttavia un’occupazione solitaria [...] non ha reciso ogni legame con “tutti gli altri”… [Con] la forza dell’immaginazione esso rende gli altri presenti e si muove così potenzialmente in uno spazio pubblico, aperto a tutti i partiti e a tutti i confronti; in altre parole, adotta la posizione del kantiano cittadino del mondo. Pensare con una mentalità larga – ciò vuol dire educare la propria immaginazione a recarsi in visita (20).

Avere immaginazione, prendere in considerazione i giudizi possibili, scambiarci di posto, diventare luogo di transito per le altre esperienze, aprire l’indagine a tutti i punti di vista, ritrovando gli altri nella loro vividezza... Ovunque ospiti, ammettere di non avere casa, di avere un nemico nel proprio nome ed un appiglio nell’altro, e rifare dunque lo spazio pubblico su una scala globale. Il giudicare diventa così una delle più importanti attività nella quale si manifesta il nostro condividere-mondo, un atto in cui il soggetto è al contempo solo e soggiacente alla comunicazione. Un’intersezione conflittuale ed individualizzante, volta a impadronirsi ognuno a suo modo dello stesso contenuto sociale – qualcosa che Fortini e Gramsci avrebbero chiamato traduzione. Da questa mancanza, da questa incompletezza, possono muovere progetti politici alternativi. Perché riconoscere le difficoltà non ci porta necessariamente a dire che

per domande particolari ci vogliono risposte particolari; e se le tante crisi che abbiamo vissuto dall’inizio del secolo ci possono insegnare qualcosa, questo qualcosa [...] è che non ci sono norme generali per emettere giudizi infallibili, né regole generali sotto le quali sussumere con certezza i casi particolari (21).

    La crisi non è infatti una domanda particolare e – proprio perché non dobbiamo ragionare secondo opposizioni semplici, proprio perché l’infallibilità è solo il fantasma di una politica, proprio perché è la risposta volta per volta ad essere la più grande utopia – altro dovrebbe essere il programma minimo di questi tempi. Né soluzioni puntuali né ricette salvifiche, dunque:

per un partito che ha definito i propri obiettivi, il problema non è quello di fornire delle risposte ma di dare alla gente i mezzi di essere i produttori, non delle proprie risposte, ma delle proprie domande e di essere, nello stesso tempo, i produttori di strumenti di difesa contro le domande che vengono imposte per il semplice fatto che essi non ne hanno altre (22).

    Si tratta quindi di muovere da un rifiuto, inventare i propri problemi, reperirli nel tessuto storico, recuperare tutta la potenza del giudizio, che sta nel parlare insieme per dividere e decidere. Questo non vuol dire appiattirsi sulle forme del potere – d’altronde è chiara la differenza fra una persona sentenziosa e una giudiziosa... Vuol dire piuttosto che, più di un’esplosione momentanea, sempre prevista, dati i ritmi esasperati e le linee di stress che attraversano le metropoli, chi governa teme proprio un’elaborazione strategica, un tipo di sedimentazione organizzata e cosciente, dove miracolosamente convergono la pazienza dei tempi lunghi e l’ostinazione del tutto e subito. Forse solo in questo modo difficile possiamo uscire dalla condanna del passato, dal vizio di ripetere l’identico. Andando oltre la registrazione delle nostre miserie, mettendo giudizio.


Note con rimando automatico al testo

1 F. Fortini, Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Einaudi, Torino 1978, p. 103. Per un’analisi di questo testo nel quadro dell’opera fortiniana, cfr. L. Lenzini, Il poeta di nome Fortini, Manni, Lecce 1999, in particolare pp. 143-152.

2 Opportunamente quindi, dal “Sole 24 ore” ai principali siti finanziari, si è ricordata proprio l’etimologia della parola crisi: «giudizio, separazione, scelta. Termini proattivi, molto vicini all’approccio imprenditoriale della media azienda italiana, che non può fermarsi e che deve operare scelte sui mercati, esprimere giudizi e prendere posizione sulle azioni globali e la realtà locale in cui opera, che deve separare le opportunità dagli eccessivi rischi [...] La crisi ha senz’altro intensificato il sistema competitivo, non lo ha appiattito e anestetizzato. La crisi incentiva il sistema competitivo». D’altra parte i teorici della finanza non hanno mancato di recuperare, nella loro bulimia, persino gli insegnamenti de L’arte della guerra di Sun-Tzu e in generale la sapienza cinese, per la quale la parola ‘crisi’ (composta da due ideogrammi, wei, ‘problema’, e ji, ‘opportunità’) contiene, dopo il tratto negativo, un aspetto di crescita e di affermazione. Per il broker o l’imprenditore la crisi è una sfida, che lo deve spingere a focalizzare la propria attenzione sul lato redditizio, e non su quello drammatico. È la verifica del proprio valore come competitor, che si accompagna al disprezzo per il debole che soccombe alla difficoltà.

3 Qui non si tratta semplicemente di riprendere certi contenuti, ma di tentare di assumere lo stile di pensiero del comunista sardo. Infatti, nell’elaborare il tema del senso comune, «il confronto con la tradizione filosofica rimane una costante essenziale delle osservazioni di Gramsci [...] ma non allo scopo di proseguirla, bensì di trasformarla profondamente, immettendo tale nozione nel discorso politico [...] cioè costituendola in categoria della scienza politica, interpretativa della realtà sociale e in pari tempo operativa» (cfr. C. Luporini, Senso comune e filosofia, in Antonio Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, supplemento a “L’Unità”, 12 aprile 1987, Roma 1987, p. 132). Sulla pluralità e varietà di accezioni del lemma nei Quaderni cfr. G. Liguori, Senso comune e buon senso nei Quaderni del carcere. Relazione per il seminario sul lessico della IGS Italia, Roma, 13 maggio 2005, pubblicato online su: www.gramscitalia.it/senso.htm.

4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, pp. 65-76.

5 Ibidem, p. 37; cfr. anche p. 2041. Com’è noto, il termine «intellettuale» in Gramsci ha una valenza molto ampia. Non riguarda solo ogni uomo, in quanto partecipe di certe funzioni intellettuali; anche quando è impiegato in un’accezione riduttiva, indica chi assolve compiti di rappresentazione e di spiegazione del mondo. In questo senso anche gli operatori meno ‘teorici’ (come politici e giornalisti) o persino ‘tecnici’ (come editori, amministratori etc), sono a tutti gli effetti «intellettuali», perché organizzano, sistematizzano, diffondono una determinata visione del mondo.

6 Ibidem, pp. 1045-1046.

7 P. Bourdieu, L’opinione pubblica non esiste, in “Problemi dell’informazione”, n. 1, gennaio-marzo 1976, Il Mulino, Bologna, pp. 71-88.

8 Ibidem, p. 80.

9 Cfr. a questo proposito V. Giacché, “Totalitarismo", triste storia di un non-concetto, in “La Contraddizione”, n. 112, gennaio-febbraio 2006. Oltre all’evidente abuso strumentale di questa categoria, che ne ha determinato la fortuna in ambito politico, anche il suo uso più teorico dovrebbe dare da pensare: quando un concetto può indicare tutto, rischia di non indicare più niente. D’altronde una serie di aporie nella sua strutturazione (come l’equazione fra ideologia nazista e bolscevica, fra le diverse modalità di comando, fra il contenuto economico dei differenti regimi etc) sono già riscontrabili ne Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt (Einaudi, Torino 2004). Per un’altra critica del concetto da un punto di vista più storico cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1999.

10 Qui il riferimento obbligato (senza dimenticare che si tratta di una suggestione più che di un effettivo avvenimento storico) è alla neolingua che G. Orwell racconta in 1984.

11 Soprattutto da questo punto di vista il nostro tempo non sembra essere così immune da alcuni tratti normalmente attribuiti al ‘totalitarismo’. La costruzione di una memoria europea condivisa, ad esempio, ci offre la rappresentazione di come, in puro stile orwelliano, chi controlla il passato controlla il futuro (cfr. a questo proposito Riscrittura della storia e criminalizzazione del dissenso nell’UE su http://cau.noblogs.org/gallery/5246/commento%20Risoluzione%20UE.pdf). È quantomeno ironico che sia proprio la Arendt, che contrappone il totalitarismo alle forme di democrazia liberale (tanto che la traduzione del suo testo fu generosamente finanziata dalla CIA), a darci qualche elemento per cogliere la continuità fra l’esperienza nazifascista/stalinista ed i governi occidentali. Infatti, per mobilitare il consenso, «un regime totalitario ha sempre bisogno di un nemico», così come deve sostituire, attraverso la menzogna, un vero e proprio mondo fittizio a quello reale. Queste due operazioni sono rintracciate qualche anno più tardi dalla stessa Arendt nella «politica d’immagine» degli Stati Uniti al tempo del Vietnam e del caso Nixon. L’«immagine» (ad esempio quella dei nemici degli americani), costruita a tavolino, opera attraverso la massa come un sostituto della realtà; grazie alla potenza dei mezzi di comunicazione può risultare molto più in vista (cioè più effettiva, più «reale»), della realtà che intende sostituire (cfr. Politica e menzogna, Sugarco, Milano 1985, p. 98). Ma, stando così le cose, fra questa sostituzione della realtà e quella che viene operata nei regimi totalitari non sussiste alcuna differenza strutturale (vi è al massimo una differenza di grado: se il controllo dei mezzi di comunicazione non è completo l’operazione di sostituzione può fallire, o non riuscire completamente). In questo contesto è estremamente significativo, per quanto un po’ volontaristico, che la Arendt affermi risolutamente: «Gli standard sociali non sono e non devono diventare standard giuridici. Se la legislatura segue il pregiudizio sociale, la società diventa tirannica» (cfr. Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino 2004, p. 179).

12 Spesso la continuità fra alcune forme solitamente rubricate sotto l’aggettivo ‘totalitario’, e il controllo che si esercita in diversi ambiti della vita al fine di formare condotte compatibili, è evidente. Non si tratta solo delle campagne informative di Stato che in toni sempre più apocalittici allarmano e denunciano, sin dall’infanzia, l’uso di droghe, l’abuso di alcool e tabacco, le malattie infettive e cardiovascolari, le scorrette abitudini di guida (proprio mentre ipocritamente lasciano intoccati i motivi che producono queste tragedie), e che sono frutto di una concezione del cittadino-minore che deve essere tutelato da se stesso. Il tratto ancora più spaventoso del potere è l’educazione alla moderazione, l’abitudine alla collaborazione con l’autorità, il messaggio sotteso ‘sei libero di fare e pensare quello che vuoi, ma solo in un modo’. E questo tratto non ha il suo autore nello Stato: i veri meccanismi totalitari oggi attraversano i posti di lavoro e del divertimento, passano per il controllo dei tempi e delle mansioni, per la subordinazione di ogni istanza culturale e ambientale al profitto, e conoscono nelle corporation – in grado di offrire allo stesso tempo una disciplina della produttività e dello svago, l’ordine del comando e il canale di protesta – il loro laboratorio. Si pensi ad esempio a MTV che, mentre utilizza precari e costruisce l’individuo-consumatore, avvia progetti ‘sociali’, trasmissioni e petizioni di legge per cambiare le cose, direttamente, perché «Tocca a noi». Inutile dire che una ribellione furiosa e cieca, quale ci è dato vedere spesso nelle esplosioni delle nostre banlieue, non apre una via di fuga, ma mostra semmai più chiaramente le stimmate della dominazione. Sul tema del «potere totale del capitale», cfr. M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 126.

13 Cfr. a questo proposito G. Agamben, Lo stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

14 Queste considerazioni, per quanto assumano l’Italia come riferimento immediato, potrebbero valere ben oltre i nostri confini nazionali, e persino oltre quelli dell’Unione Europea. Pure mettendo da parte le esperienze delle guerre mondiali, dove anche i regimi liberali misero in atto provvedimenti e mobilitazioni di sapore totalitario (si pensi alle campagne per sostenere lo sforzo bellico, per favorire la produttività, per spingere i giovani ad arruolarsi, o ancora all’uso della bomba atomica o all’internamento dei giapponesi presenti negli Stati Uniti, identificati in toto come nemici), l’uso dell’emergenza come diversivo contro i movimenti sociali e i partiti di ispirazione comunista ha conosciuto un largo utilizzo durante la Guerra Fredda. Questo meccanismo non si è affatto estinto nel 1989, ma anzi ha tratto nuova linfa dai conflitti internazionali, dalla cosiddetta lotta al terrorismo, e persino dalle catastrofi ambientali, come l’uragano Katrina del 2005.

15 Per quanto i recenti provvedimenti in materia di immigrazione rappresentino un salto degenerativo non indifferente, anche rispetto alla nostra tradizione giuridica, essi sono in una continuità con i precedenti: come gli altri, vengono da un pregiudizio e rappresentano un ulteriore giudizio. Una volta condiviso questo frame del sans papier, infatti, è ovvio che la sua presenza risulti inaccettabile: è il suo carattere di negatività, di negazione dell’organizzazione sociale al suo primo livello, quello dell’identificazione e del controllo, a terrorizzare e indispettire il cittadino. Senza esistenza lecita, il clandestino farà senza dubbio tantissime cose illecite, slittando così dal piano del nemico potenziale a quello reale. In realtà, a dover essere messa in causa è proprio la distinzione fra migrante ‘buono’ e ‘cattivo’, e persino la prospettiva multiculturale di un incontro fra le diverse appartenenze. Infatti la mancanza di documento, la condizione di un’indigenza sopportata spesso con estrema dignità, è innanzitutto la dolorosa rappresentazione di un’universalità, la marca di un’appartenenza al genere umano. Forse non abbiamo bisogno dei migranti in quanto portatori di una cultura diversa, nell’ottica di una società in cui diverse comunità si relazionano purché a trionfare sia sempre la nostra cultura, ma dei migranti proprio in quanto non sono assimilabili, proprio in quanto costringono a rivedere gli assetti fondamentali della nostra società.

16 Cfr. A. Dal Lago, Non-persone, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 11-12: «Quasi tutte le affermazioni dominanti sulla minaccia costituita dalle migrazioni sono discutibili, se non semplicemente false [...] Ma sarebbe sbagliato pensare che siano vanificate una volta contestata la loro insensatezza. Sono socialmente “vere” in quanto vanno di pari passo con l’elaborazione di identità reattive da parte di chi le usa. Sono vere perché tautologiche, necessarie in una certa economia retorica, indispensabili ad una certa argomentazione [...] Il fatto che si tratti di verità sociali rende abbastanza inefficaci le critiche ragionevoli [...] Da una parte il discorso sull’“emergenza immigrazione” riprende luoghi comuni molto radicati nella società contemporanea (come tutto ciò che viene associato alla “sicurezza della vita urbana”). Dall’altra è rafforzato e legittimato da analisi “scientifiche” che ammantano ciò che “tutti sanno” con pseudoconcetti».

17 Si tratta del «circuito tra senso comune locale, iniziative politiche e generalizzazione ad opera dei media, grazie al quale lo straniero viene incessantemente costruito e ri-costruito come nemico [...] L’esistenza di un canovaccio narrativo ricorrente rivela un meccanismo stabile di produzione mediale della paura. Definisco “tautologico” questo meccanismo quando l’enunciazione dell’allarme [...] dimostra la realtà che esso denuncia [...] Nella costruzione autopoietica del significato, le definizioni soggettive di una situazione diventano reali, cioè oggettive, e questo è tanto più vero quanto più riguardano aspetti socialmente delicati» (ibidem, pp. 71-73).

18 Purtroppo, nell’analizzare la richiesta di sicurezza e il montare della xenofobia, non è stata spinta fino in fondo un’analisi di classe. Questi fenomeni hanno infatti riguardato particolarmente un gruppo sociale che da trent’anni a questa parte ha visto peggiorare significativamente le proprie condizioni materiali di vita, i suoi stessi quartieri, e il proprio status sociale (per quanto conservi una differenza reddituale tale da ispirare discorsi chiaramente classisti). Un gruppo sociale peraltro da sempre ideologicamente sensibile alla piccola proprietà, al decoro, ipocritamente ligio alla morale, alla religione e alla legge, chiuso in una dimensione localista, per il quale il rischio di una proletarizzazione induce ad un sovversivismo violento.

19 A. Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 311. Qui la lotta fra vecchio e nuovo, sopratutto per quanto riguarda la sintomatologia del trapasso, echeggia la famosa pagina di Hegel della Fenomenologia: «Lo spirito ha rotto i ponti col mondo del suo esserci e rappresentare, durato fino ad oggi; esso sta per calare tutto ciò nel passato e versa in un travagliato periodo di trasformazione [...] Lo sgretolamento che sta cominciando è avvertibile solo per sintomi sporadici: la fatuità e la noia che invadono ciò che ancora sussiste, l’indeterminato presentimento di un ignoto, sono segni forieri di un qualche cosa di diverso che è in marcia» (cfr. Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1996, pp. 6-7).

20 H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987, p. 551, appendice sul «giudicare». Cfr. anche gli sviluppi pubblicati in Teoria del giudizio politico, Il Melangolo, Genova 2005.

21 Cit. da J. Kohn nell’Introduzione a H. Arendt, Responsabilità e giudizio, cit., p. VII. Con queste parole la Arendt intervenne alla Chiesa Riverside di Manhattan ad un convegno incentrato su La crisi della società moderna.

22 P. Bourdieu, L’opinione pubblica non esiste, cit., p. 87.



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